
Air – Il business è un gioco da ragazzi
Air, il nuovo film di Ben Affleck, racconta la storia della creazione del brand Air Jordan e della trattativa con cui la Nike ha ottenuto il volto della leggenda del basket. Una tematica molto specifica, che apparentemente ha le sembianze di un aneddoto che difficilmente potrà interessare qualcuno al di fuori della cerchia degli appassionati di sport e di snickers. Ma Air punta altrove: la grande narrazione americana in cui lo spirito collettivo di una squadra è capace di ottenere l’impossibile.

Air, prima ancora di una ricostruzione della nascita di un’icona americana, è una storia di professionisti. Individui eccellenti nel loro lavoro che giocano in team: è una squadra, più che un’azienda, in cui ognuno ricopre un ruolo che rispecchia il proprio talento, segue una strategia, improvvisa, combatte. La forza del film sta proprio nel racconto di questa squadra, nei momenti in cui i personaggi si confidano, condividono sofferenze e speranze di rivalsa. Il merito non è solo del grande cast, ma dello stesso Affleck regista, che come in The Town, è capace di comprendere i punti di forza di ogni attore, e di dare il giusto spazio alle particolarità di ogni performance.
È questo il motivo per cui ogni personaggio appare così sincero, dal Matt Damon in sovrappeso al cinico Jason Bateman, dal Chris Tucker mattatore all’eccentrico Ben Affleck stesso. Pur essendo un film fatto di uomini in crisi di mezza età, c’è una meraviglia quasi fanciullesca nel racconto della loro partita. Poche altre volte il capitalismo americano ha assunto dei toni così spensierati.
Le fragilità del film tuttavia emergono proprio quando il racconto deve andare avanti. Air è infatti un racconto puramente classico d’individui la cui storia serve alla creazione della mitologia di una nazione. L’unione di talenti, lo spirito di squadra, l’idea di rialzarsi da una situazione di svantaggio sono tutti archetipi del racconto americano, che permangono anche nei più recenti tentativi di sua decostruzione, come nel premiato Everything, Everywhere, All At Once. Si apprezza in Affleck un’onestà (e anche un coraggio) nel voler aderire così strettamente a un canone drammaturgico e ideologico forse fuori moda. Tuttavia questa scelta diventa un’arma a doppio taglio man mano che il film va avanti.

Air, infatti, racconta una storia di cui tutti sappiamo l’esito ancor prima che il film inizi. Non sarebbe la prima volta, in effetti. The social network è il più celebre esempio di come il dietro le quinte di una corporation americana possa creare grande cinema. Tuttavia, l’approccio di Fincher era di un’analisi clinica dei rapporti tra i personaggi. Il risultato è stato quello di creare un grande affresco delle motivazioni ideologiche, emotive ed erotiche che alimentano il capitalismo contemporaneo.
Il classicismo di Affleck non permette ad Air di andare oltre il semplice racconto di una squadra che deve giocare la partita di tutta una vita, e poiché si sa già l’esito di questa partita, il film perde di fascino proprio nei momenti che dovrebbero essere di maggiore tensione. In un film in cui la maggior parte dell’azione è incentrata su trattative e contrattazioni (al telefono o faccia a faccia), questa mancanza di un livello interpretativo ulteriore fa perdere a queste scene tutto il loro potenziale drammatico.
Forse questo non è nemmeno nell’interesse di Affleck. Probabilmente, anche uno degli attori più famosi di Hollywood si è semplicemente fatto prendere dalla passione per i ricordi che sta caratterizzando tutto il cinema contemporaneo. Si parte dai titoli di testa con i Dire Straits su un montaggio che riassume in un minuto tutto l’immaginario degli anni 80, e si continua con un accompagnamento musicale che assume i toni di una playlist. In quasi ogni scena è presente un riferimento a quella cultura, a quella mentalità.
Il tentativo di Affleck è di riproporre un’epoca ormai passata, ma anche di misurarne i limiti, le contraddizioni. Lo si può intuire da un dialogo di Damon e Bateman su Born in the USA di Bruce Springsteen. Tuttavia, anche questo tentativo riesce solo in parte. Non c’è una vera e propria conclusione a questo discorso, e alla fine rimane la sensazione di gradevole ma superficiale nostalgia.

Anche il personaggio di Viola Davis soffre di un arco quasi inconcludente. Contrapposta alla visione degli uomini della Nike, per i quali il capitalismo è una grande avventura in cui trovare una seconda giovinezza, la madre di Micheal Jordan è assai più disillusa nei confronti del mondo che la circonda. Agendo come vera e propria intermediaria tra Micheal e il personaggio di Matt Damon, la sua è semplicemente una tattica difensiva contro ogni tentativo di sfruttamento nei confronti del figlio. Una sorta di lucida, quasi spietata disillusione che vede l’amore materno trasformarsi in consulenza finanziaria. Tuttavia, anche questo aspetto viene lasciato a poco a poco in disparte una volta concluso il film, che si rifugia in una riconciliazione forse troppo frettolosa.
Le lacune di Air non gli permettono di raggiungere la grandezza che cerca di rappresentare. Piuttosto, pare accontentarsi di essere un discreto film d’intrattenimento. Perfettamente godibile, ma che delude proprio nel momento in cui cerca di raccontare come si costruisce un’icona americana.
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