
Le Mans ’66 – La grande illusione
Le Mans ’66 – La grande sfida, Ford v Ferrari, il film di James Mangold (4 candidature agli Oscar 2020) dovrebbe essere nominato nella categoria miglior titolo fuorviante. Il film, uscito nelle sale italiane il 14 novembre del 2019, non può infatti non tradire le aspettative di chi pensava a un film di motori sulla grande rivalità tra i due colossi dell’automobilismo. Certo, Le Mans ’66 è anche questo, ma l’autodromo e l’agone sportivo sono solo un effetto collaterale del sogno americano.
Perché Le Mans ’66 è prima di tutto un film sugli Stati Uniti (e sul cinema) intesi come apparato produttivo che con la propria logica di conflitto tra culto dell’individuo e suo soffocamento insegue un indefinibile orizzonte di attese.
“Who are you?”
La traccia seguita da Le Mans ’66 parte con il tentativo fallimentare di Henry Ford II (nipote del patron Henry) di acquistare la Ferrari in bancarotta e rilanciare l’appeal della società. Quando Enzo Ferrari (Remo Girone) si rifiuta di vendere agli americani e il cavallino rampante viene rilevato da Agnelli, la Ford, specchio di quell’America che quando non può comprare, va in guerra, decide di investire sulla produzione di auto da corsa per battere la casa di Maranello nella estenuante 24 ore di Le Mans. Si rivolge quindi all’unico ex pilota americano ad aver vinto a Le Mans, nel 1959, Carroll Shelby (Matt Damon), adesso costruttore indipendente di auto sportive. Et voilà, nasce così la leggendaria Ford GT 40, ma serve qualcuno che la guidi. Detto fatto, Shelby si rivolge a un altro lupo solitario, l’inglese naturalizzato statunitense Ken Miles (il proteiforme Christian Bale), pilota eccezionale ma irrequieto e profondamente antisistema.
Ed è a questo punto che emerge la vera natura del film di Mangold, artefice di un cinema classico che non esiste più e degno erede di Howard Hawks: il conflitto tra l’individualismo assoluto, l’american spirit che vive all’ombra della morte, e la cieca burocrazia delle corporation. Individualismo degli antieroi silenziosi ma collerici, radicali ai margini della società, che vi partecipano seguendo le proprie regole, trasformando vizi in virtù. Come i cowboy di Hawks, come i protagonisti di Un dollaro d’onore, gli ordinary men dal titanismo latente, che confondono ancora società e comunità e che, se chiamati a contribuire, mantengono salda la propria integrità morale.
Volendo puntualizzare, un titolo appropriato sarebbe stato Ford v Shelby, perché la competizione sportiva passa in secondo piano in questo film che parla degli Stati Uniti per metonimia, attraverso quella Ford inventrice della catena di montaggio nonché culla del capitalismo industriale che, paradossalmente, non sa capitalizzare il talento individuale. Una visione che dalla Ford, parte per il tutto, si estende a Hollywood stessa, schiava dei propri limiti. La grande sfida del sottotitolo italiano risulta quindi essere la capacità dell’individuo di rimanere autentico, di estendere i propri orizzonti, spingersi faustianamente oltre, sopra i 7000 giri al minuto (omaggio a un altro film di Hawks, Linea Rossa 7000), in cui il peso della macchina scompare e resta solo un corpo senza identità, immobile nello spazio e nel tempo.
Le Mans ’66 scava nell’anima dell’America, quello che ritroviamo nei personaggi di Ernest Hemingway o di William Faulkner, e che negli anni Sessanta è stata corrotta dalla pubblicità: compiere il giro perfetto o rinunciare alla perfezione per una fotografia da prima pagina? La duplice anima della frontiera resiste nell’amicizia tra Shelby, razionale, riflessivo, e Miles, tutto nervi e istinto. Outsider fedeli a se stessi, incapaci di integrarsi – come in Logan, come gli X-Men – che rinunciano a essere parte della Storia per rimanere autentici.
Le Mans ’66 si offre allo sguardo dello spettatore come un neowestern nostalgico, riscoprendo i valori che hanno fatto grande quel cinema: ardimento e volontà incrollabile, fiducia nel destino e pragmatismo, violenza e nobiltà d’animo, etica della quotidianità e ineluttabilità della morte.
“Qual è la differenza fra chi viaggia in motocicletta sapendo come la moto funziona e chi non lo sa?” si chiede Pirsig in Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. La stessa domanda che si è posto Mangold, consapevole che Dio è nei dettagli, che la poesia è concretezza, è orizzonte e asfalto, meravigliosa leggerezza della perfezione tecnica. La tecnica che riavvicina il cinema all’automobile come protesi della modernità, capace di plasmare spazio e tempo attraverso la velocità.
Sembrava l’ennesima vittoria del sogno americano sul resto del mondo e, invece, Le Mans ’66 è tutta un’altra storia.
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