
Un Riccardo III che dà fastidio. Intervista a Elisabetta Mazzullo, attrice di cinema e teatro.
Sarà lei a vestire i panni della Regina Elisabetta nel nuovo adattamento teatrale di Riccardo III, l’opera shakespeariana diretta da Kriszta Székely che ha debuttato al Carignano di Torino lo scorso 7 marzo. In vista delle prossime tappe della tournée, abbiamo colto l’occasione per intervistare Elisabetta Mazzullo, attrice proteiforme e artista poliedrica. Nella sua vita è arrivata prima la musica, tra oboe e pianoforte al Conservatorio di Rovigo; passione che coltiva ancora oggi nel lavoro del duo BETTADAVIS. Dopo una laurea in Filosofia, è stato il turno della recitazione alla Scuola del Teatro Stabile di Genova, per poi scoprire il mondo della regia e approdare infine sul grande schermo nei panni di Lara in Le otto montagne (Van Groeningen e Vandermeersche, 2022).
Attrice, regista, musicista, cantante e compositrice: sei un’artista a tutto tondo!
All’inizio non credevo che sarei riuscita a conciliare tutti questi ambiti, ma penso che l’unicità di una persona stia nel saper tenere insieme le diverse parti con organicità ed è quello che cerco di fare, nell’arte come nella vita. Quando approccio un nuovo personaggio, ad esempio, la musica mi aiuta sempre a prepararmi.
E da regista, invece, che ruolo avrebbe la musica in un tuo spettacolo?
Sarebbe un’altra protagonista: torna nelle battute e contribuisce a scandire il ritmo del testo. Se mai dovessi mettere in scena Shakespeare, riuscire a mantenere il suo pentametro giambico sarebbe una sfida interessante. Mi piacerebbe anche che ci fosse della musica dal vivo e che gli attori potessero suonare qualunque oggetto presente sulla scena.

Che cosa vuol dire portare in scena Riccardo III oggi?
Mettendo in scena Riccardo III vogliamo provocare e dare fastidio al nostro pubblico, ricordando alle persone che siamo noi a eleggere i nostri capi politici. Spesso si tratta di una scelta dettata dall’emotività: è la simpatia o antipatia per un personaggio politico a orientare il voto. Quello di cui ci rendiamo conto replica dopo replica è che Riccardo piace, comincia a stare simpatico al pubblico, lo amano. Il potere ha la capacità di attrarre, sedurre, trasformare l’essere umano, uomo o donna che sia – e in questo spettacolo le donne non sono certo escluse dal processo di manipolazione della verità!
Nello spettacolo interpreti una figura femminile importante. Come presenteresti la tua Elisabetta?
Elisabetta è la moglie di Edoardo, l’attuale re, e madre di due bambini; una donna leale e fedele, consapevole che il potere del marito è stato conquistato con violenza e non pochi soprusi. Dell’originale shakespeariano rimangono gli aspetti storici. Dal punto di vista caratteriale, invece, la regina è una donna sola, non riesce a entrare in empatia o in complicità con nessuno, nemmeno con le altre donne che la circondano; ciò la rende spigolosa ma al tempo stesso fragile e sola, esposta alle minacce di Riccardo. La regista [Kriszta Székely, n.d.r.] ha avuto l’intuizione di aggiungere al mio personaggio una certa dose di ironia e di sagacia, che costituiscono una delle cifre stilistiche dell’intero spettacolo.
Riccardo III è una riscrittura integrale, molto distante dal testo e dall’ambientazione originali. In che chiave viene adottata l’ironia in questa nuova cornice?
L’intero spettacolo è un invito a riflettere. La componente ironica, che a tratti sfocia in una vera e propria vena comico-grottesca, contribuisce a sollecitare il pensiero. Un altro espediente per questo obiettivo è la rivisitazione di alcune scene: lo stesso finale, che in origine spettava a un altro personaggio, viene regalato a Elisabetta. Si tratta di una scelta registica di fronte alla quale lo spettatore d’oggi non può restare indifferente: finalmente è una donna a salire al potere, ma non è detto che sarà questa la risposta ai problemi degli elettori.

Quanto giudichi necessaria la rielaborazione per presentare un classico oggi? In che misura è bene restare fedeli all’originale?
Si pone innanzitutto un problema linguistico: fino a che punto si può parlare di “originale”, in una lingua tradotta? Del resto tradurre è sempre un po’ tradire. E poi c’è la questione della messa in scena, quindi l’estetica. In che modo giustificare una scenografia neorealista o surrealista per un classico? Deve sempre esserci una certa coerenza o una voluta incoerenza tra i due mondi. Naturalmente è una scelta che risponde al gusto del regista, ma dipende anche dalla compagnia con cui si ha a che fare e dal linguaggio che si adotta. Nell’approcciare un grande classico io giocherei attraversando i temi della nostra contemporaneità.
Cosa ritieni contemporaneo? Hai assistito Valerio Binasco nel corso di regia per una classe di scenografi e costumisti dell’Accademia di Belle Arti di Genova, ad esempio. Quali tendenze hai intercettato nelle nuove generazioni di artisti?
C’è un desiderio espressivo molto forte tra i giovani. Credo che avvertano la mancanza di punti di riferimento estetici, pedagogici, artistici e morali. È in corso una crisi in cui ciascuno cerca di salvarsi e resistere e i ragazzi non trovano più appigli nel grande Teatro. La realtà e i mondi intravisti dal piccolo schermo, sui social, informano il canone di una nuova estetica del brutto, del niente, delle periferie, lontana da rassicurazioni e affatto consolatoria. Anziché tornare ai Maestri, i giovani scenografi trovano l’ispirazione in giro per le strade, nelle città, nelle metro, nelle stazioni. Mi sembra lo specchio di una società che si sta cercando.
E per quanto riguarda i giovani attori? Ad oggi esistono molte alternative per chi vuole recitare: tornando indietro, sceglieresti ancora un percorso accademico?
L’accademia è una scelta che rifarei, perché credo possa offrire due grandi vantaggi. Il primo è la quotidianità, il lavoro giorno dopo giorno, per otto ore. Ti prepara a quello che succede quando andrai sul palco: dovrai farlo ogni giorno, non ogni tanto, imparando la fatica della ripetizione. Il secondo motivo è che avere insegnanti, anche diversi, per un lungo periodo di tempo, ti trasmette un metodo; cosa che non accade in esperienze laboratoriali intensive di breve durata. Detto questo, i laboratori consentono di spaziare maggiormente, di incontrare molti più colleghi di età e provenienze diverse dalla tua e non avere gli stessi compagni di classe per tre anni. Inoltre, c’è anche una importante questione economica da tenere in considerazione: molte accademie in Italia sono gratuite.
Una confidenza in chiusura: quale lezione non dimentica un teatrante sul set?
La calma: se sei teso lavori male e la macchina da presa lo coglie subito. E ovviamente gridare meno!

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