
Tra menzogna e verità – Art di Yasmina Reza al Teatro della Tosse
Prima dell’ultima chiusura nazionale, l’ultimo spettacolo che ho visto al Teatro della Tosse di Genova è stato Art, di Yasmina Reza, per la regia di Emanuele Conte e interp retato da Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e Graziano Sirressi, i tre attori del collettivo Generazione Disagio e ormai da qualche anno parte integrante della Compagnia della Tosse.
È passato un po’ di tempo da quella data e confesso che lo sconforto seguito alla nuova chiusura nazionale ha portato a chiedermi se avesse ancora senso scrivere in un tempo di ritrovata desertificazione delle sale. Mi sono chiesta se le mie parole non rischiassero di cadere nel vuoto, di creare un’attesa e un’aspettativa frustanti, sia per chi legge sia per chi scrive. Col tempo però ho capito che il pensiero era stupido: non solo questo spettacolo merita un commento, ma merita senza dubbio di creare aspettative e attese, nella speranza, più viva che mai, di rivederlo presto in programmazione.

Yasmina Reza è ormai un nome che porta a teatro con un presentimento preciso, con la sensazione di recarsi ad assistere al conto alla rovescia di un ordigno incredibile che esploderà davanti ai nostri occhi. Art, che le è valso il premio Molière 1994 come miglior autrice, l’ha consacrata alla scena internazionale.
Come le successive Tre variazioni della vita, Il dio del massacro e Bella figura, la pièce rappresenta in maniera emblematica l’interesse principale della Reza: portare in scena il difficile processo di liberazione dalle convenzioni sociali e dall’ipocrisia di molti rapporti umani, spesso proprio i più intimi. «Può addirittura sembrare spietata, ma il suo è amore per la verità», dice giustamente di lei Emanuele Conte.
Il teatro della Reza è infatti dissacrante e autoironico nei confronti dell’umanità che rappresenta, teso a metterla in ridicolo, ma suggerendo al tempo stesso che un’altra umanità è possibile. Quale? Forse quella che percorre fino in fondo la pista della menzogna per verificare che essa, ironicamente, non può che condurre – per esasperazione – alla verità.

Liberatisi dalle fatiche della vita che spesso passano per la non comunicazione, o per la falsa comunicazione, i suoi personaggi sembrano infatti alleggeriti, in qualche modo riappacificati, prima che con gli altri, con se stessi. Come a significare che la liberazione dalle nostre colpe e delle nostre pochezze debba necessariamente passare per un corpo a corpo. Sulla scia della miglior tradizione del dramma borghese, l’umanità ritratta è così generica e al tempo stesso precisa e poliedrica che chiunque è chiamato a ritrovarsi in uno o più dei suoi personaggi senza provarne fastidio. Provando piuttosto, grazie alle molte risate, forse un po’ di liberazione e sollievo.
Yasmina Reza ha dichiarato che nelle sue opere cerca di concentrarsi sulle piccole inezie, su avvenimenti in apparenza insignificanti che compongono le nostre vite rendendole talvolta insoddisfacenti ed egoriferite. Così è anche per Art, dove la scintilla è un evento non poi così straordinario.
Serge (Graziano Sirressi), dermatologo e appassionato di arte contemporanea, ha appena comprato un quadro, completamente bianco, per una somma stratosferica. Marc (Luca Mammoli), cinico e scettico nei confronti dell’arte contemporanea (e a tratti della stessa contemporaneità), non vuole credere che il suo caro amico abbia potuto pagare tanti soldi per una tela bianca. Un bianco che per lui rappresenta semplicemente il nulla e che mette in crisi la stima stessa che nutre per l’amico.

Ai suoi occhi l’acquisto ha il sapore di un affronto, macché, di un tradimento alla sua persona. Per l’indole arrogante e sicura di sé, Marc non si preoccupa di trattenere una risata sprezzante e beffarda verso l’opera (e verso l’amico), rimanendo però poi deluso dalla severità con cui Serge, offeso, reagisce. Risulta ovvio che tra i due qualcosa si è rotto ormai da tempo e che la questione del quadro è solo la goccia che fa traboccare il vaso.
A complicare la situazione, ma anche a farla finalmente deflagrare, è il terzo angolo del triangolo. Yvan (Enrico Pittaluga), insoddisfatto, tormentato e incerto, emerge e viene dipinto come una sorta di paciere inetto, il mediatore sempre pronto a evitare i conflitti di cui, alla fine, sembra essere l’origine. Così, in piena crisi personale, Yvan si barcamena tra la rabbia di Marc e quella di Serge, venendo a patti, infine, anche con la sua.
Le premesse sono delle migliori e infatti, grazie alla strepitosa interpretazione dei tre attori (guardarli recitare è un autentico piacere!), lo scontro è esilarante. I dialoghi serrati viaggiano nell’etere e sono coltelli affilati, le parole sono severe e sagaci, di quelle maturate in anni di mancata sincerità e risentimento, ripetute e preparate chissà quante volte ad altri o a se stessi.

La distanza di sicurezza imposta è sfruttata con intelligenza dalla regia e dagli attori che la usano come correlativo oggettivo della distanza emotiva e relazionale che separa i personaggi. Così, ciascuno rimane isolato nel suo cubo di luce, dal quale talvolta esce rivestendosi di un chiarore diverso e confidando al pubblico ciò che realmente pensa e che agli amici non riesce ancora a dire. Anche gli sguardi s’incontrano raramente, soprattutto quelli di Marc e Serge, ma quando lo fanno accompagnano parole che nonostante la durezza sono mosse dal desiderio profondo di non rovinare davvero tutto.
L’uso delle luci (a cura di Matteo Selis) risulta davvero ben riuscito, permettendo di illuminare non solo il palco, ma anche le zone d’ombra di un dialogo non sempre sincero. I giochi e gli intrecci di luci colorate che si alternano al consueto bianco sono perfetti su una scenografia, anch’essa opera di Conte, ridotta al minimo.
Lo scontro tra amici riguarda l’arte contemporanea e il suo significato nella società odierna, intercettando una sagace critica alla società borghese contemporanea e all’arte che meriterebbero una trattazione a parte. Tuttavia, è chiaro fin da subito come l’arte sia solo un vessillo dietro il quale ergere le proprie personali opinioni riguardo l’amicizia che lega i tre, del passato e nel presente.

Nelle note di regia Emanuele Conte scrive: «mentre ridiamo scopriamo che capirsi è davvero difficile». Tutto il dialogo fra amici – e il rapporto che ne emerge – racconta di questa quotidiana difficoltà. La tensione che i tre attori (amici nella vita, per altro) portano sul palco è espressione del bisogno di arrivare a un punto di verità che per troppo tempo è mancato. Del resto, capita sovente che anche nei migliori rapporti, in vecchie amicizie o in amori logorati dal tempo, sia difficile – perché disabituale – permettersi parole sincere.
Una volta un caro amico mi disse che amare significa portare alla persona amata la propria verità. Per questo forse amare sinceramente, in amicizia come in amore, è di una fatica estenuante. Solo dalla discussione può nascere la verità ed essa, nonostante l’abitudine, ogni tanto emerge più forte delle consuete menzogne e omissioni a confermare o smentire la forza del rapporto stesso.

Eppure lo spettacolo lascia aperta una questione importante che sembrerebbe contraddire quanto detto finora: la menzogna è sempre un atto di viltà o qualche volta sa invece essere un gesto d’amore più valido di mille sincerità? Le cosiddette “bugie bianche“, o “bugie delle unghie” per dirlo con l’espressione di un’amica, sono comuni a noi tutti e sanno talvolta essere una vera dimostrazione d’amore per «provare a ricostruire un rapporto annientato dalle parole e dagli eventi».
Complimenti dunque alla Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse per questa apertura di stagione, che, malgrado la forzata brevità in presenza, lascia il segno. Più che mai in tempi in cui molti rapporti sono messi a dura prova da convivenze (e convenienze) inaspettate o da distanze inaggirabili, Art di Emanuele Conte è uno spettacolo da attendere con impazienza: la dimostrazione di un teatro di cui abbiamo tutti bisogno.
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