
Benedetta – Anima e corpo di una poetica
Paul Verhoeven è da decenni sinonimo di scandalo e, due anni fa, appena presentato al Festival di Cannes, le reazioni suscitate dal suo ultimo lungometraggio, Benedetta, non avevano certamente stupito: c’era chi urlava al capolavoro, chi demonizzava l’opera, chi sghignazzava considerandolo un prodotto trash, di cattivo gusto. E se nessuno avesse avuto torto? Se Benedetta nella sua irrefrenabile provocatorietà volesse – e lo vuole davvero – suscitare le più diverse reazioni in un pubblico che, sempre più atipicamente, ricerca scalpore e sogna la critica archetipica fine a se stessa?
L’impensabile è avvenuto, il film è uscito anche in Italia, distribuito in un pugno di sale da Movies Inspired, e le reazioni si stanno manifestando come precisa fotocopia di quelle festivaliere, mentre si fa sempre più vivido il desiderio di pontificare o demonizzare un regista che matura insieme alla controversia che lo contraddistingue, lavorando e portando avanti una riflessione cupa e stratificata su sessualità, potere, religione, fama ed idolatria.

Toscana, XVII secolo, Benedetta Carlini è sin dalla nascita promessa sposa del Signore. Ancora bambina, viene condotta dal padre al convento di Pescia dove intraprenderà il percorso monacale. Diventata Suor Benedetta (Virginie Efira) riceve attenzioni a causa delle visioni e dei sogni che la portano a dialogare e ad avere un contatto diretto con Cristo. L’arrivo in convento di una novizia, Bartolomea (Daphne Patakia), strappata alle barbarie paterne, fa scoprire a Benedetta la sua sessualità, oltre che renderla terrena tramite del messaggio divino. La comparsa delle stigmate la faranno nominare badessa e diventare mistica guida del popolo di Pescia in un’eroica battaglia – persa – contro la peste.
Alla base di Benedetta, collante cangiante di un’opera multiforme, vi è il potere, esercitato, imposto, ambito, abusato. Il potere del denaro, quello richiesto dalla badessa, Suor Felicita (Charlotte Rampling) per accettare la piccola Carlini nel suo convento, quello della fede che ipnotizza e manipola, quello del sesso che prima spaventa e poi crea dipendenza. Il potere agisce per mezzo della prepotenza corruttiva dell’essere umano – mai pecorella smarrita, sempre belva feroce pronta a mostrare la sua arroganza, lussuria, superiorità. L’ebbrezza del potere fa peccare di presunzione anche nell’ambiguità di rivelazioni mistificate e mistificatrici. Suor Benedetta, il suo corpo mortale, etereo e seduttivo, convoglia desideri per poi incarnarli uno ad uno tra possessioni, preghiere, arringhe e atti sessuali, è il tramite per veicolare messaggi, richieste, assoluzioni e punizioni. Una donna che è monaca, icona, “showgirl”, figura attrattiva e repulsiva da cui è meglio diffidare prima di rimanerne incantati, impigliati tra i nodi della sua ars dicendi fittamente intrecciata con l’amandi. Benedetta è lo specchio deformante di una società impaurita che necessita di essere rincuorata a tal punto da preferire l’illusoria consolazione di una salvezza solo promessa, alla verità di una fine imminente.

Verhoeven, cupo e crudele, sfrontato come un ragazzino, lucido e provocatorio, non teme la commistione di storico, erotico e politico. Incastra i tasselli del suo mosaico dirompente utilizzando tutti i toni possibili: profetici e inquisitori, spesso venati di un’ironia tagliente e pervasiva che nasconde puntuali frecciatine su una morale inesistente che da storicamente connotata vive di più ampio respiro se applicata – senza troppe difficoltà – alla contemporaneità. Molte sono le tracce dell’audacia rinnovata che affonda le sue radici nei liberi e austeri esordi olandesi, ma anche gli omaggi ad autori quali Ken Russell. Un affresco vibrante e vertiginoso che raggiunge i suoi picchi nelle scene emblematiche, oniriche, che avvicinano l’umana Benedetta al suo sposo: una nuda monaca si avvicina al Cristo in croce che le chiede di poggiare le mani sulle sue così che le sue ferite possano appartenerle e trasmetterle il potere di essere vista, creduta, venerata come un miraggio, una visione santissima e carnalissima che si illumina della forza performativa dei suoi stessi atti, esasperati per renderli più credibili, più d’effetto.

Tra apparizioni, nomine e profezie apocalittiche di rovina, emergono le pulsioni umane che distolgono dagli obiettivi, che portano a condanne e processi; la mistica viene accusata dal nunzio (Lambert Wilson) di eresia, blasfemia e di fornicazione. Il totale annullamento dei simboli della cristianità, al fine di esaltare la “santificazione” di Benedetta, passa attraverso una statuetta lignea della Vergine, utilizzata come giocattolo erotico dalle amanti. Lo sdegno – quello manifestato da un pubblico credente – identico a quello dei clerici corrotti della pellicola, denota un’ipocrisia che viene soffocata dall’accecante credulità di un mondo adorante, violento e impulsivo, che attacca briga per difendere il definitivo atto performativo del loro idolo indiscusso. Benedetta, nella sua ambivalenza, nella sua inconciliabile contraddittorietà è più invasiva della peste, più nociva di una dipendenza da cui non si guarisce, come quella sprovveduta Bartolomea che da serpente, si trasforma in topolino, complice ed intrappolato, vittima consenziente di un delirante piano superiore, divino e diabolico.
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