
‘Avatar – La via dell’acqua’ è un atto di fede nel cinema
Quando si scrive una recensione, di solito si cerca di evitare il ricorso alla prima persona che inevitabilmente rimanda alla soggettività e quindi alla parzialità dell’autore, in questo caso però l’esperienza individuale dello spettatore è rilevante: ho visto Avatar – La via dell’acqua pochi giorni fa (in Italia è uscito il 14 dicembre) in una sala piccola ma dotata di un impianto tecnico ottimo e, per questo film, l’esperienza di visione condivisa in un luogo pensato appositamente per vivere il cinema fa davvero la differenza.

L’intero comparto tecnico del film di James Cameron, dalla fotografia alla colonna sonora, passando per una CGI che finora non era mai arrivata a risultati come questi, è eccellente: se non stabilirà nel tempo un nuovo standard, di sicuro resterà un unicum di grande valore. Insieme a Top Gun: Maverick, poi, Avatar è una delle due vette del box-office di quest’anno, un grande blockbuster che, sfruttando gli strumenti della fantascienza tradizionale, sa plasmare dal nulla un mondo e un ambiente che diventano il fondamento della sua narrazione. Il worldbuilding ha un ruolo centrale: è immersivo, accogliente, abbraccia senza sforzo lo spettatore.

La via dell’acqua sembra inizialmente solo un’espansione più ambiziosa di ciò che è stato Avatar nel 2009, ma imbocca ben presto una strada significativamente diversa: il nucleo emotivo e narrativo è essenziale, ma più intimo e approfondito rispetto al primo capitolo. Al centro c’è una famiglia in fuga con tutti i suoi problemi e, anche se vari personaggi risultano ancora troppo stereotipati, nel complesso non sono più figure senza spessore al servizio di una grossolana trama ambientalista, ma vero motore degli snodi centrali del film.

Nelle prime scene, Neytiri tiene fra le mani una collana, ne fa scorrere le pietre tra le dita: ogni grano, una storia. Questa sequenza, mostra benissimo come Cameron concepisca l’atto del raccontare: una sorta di preghiera animista, un mantra che tiene assieme gli scomparsi e i sopravvissuti, i personaggi e gli spettatori, il filmico e il reale. Con La via dell’acqua si recupera una forma ancestrale, primordiale di racconto: un’idea di narrazione condivisa e rituale. Raccontare una storia torna ad essere un cerimoniale, da celebrare non attorno al fuoco come i Na’vi, ma davanti al rettangolo originario, lo schermo bianco della sala: in un certo senso, Cameron si fa sacerdote per riaccendere la fiamma di un modo di fare e intendere il cinema che pare in via di estinzione, avviandosi sulla strada tracciata per esempio da George Miller con Mad Max: Fury Road. Solo un regista con la sua esperienza, la sua maestria (e il suo budget) poteva riuscire in un’impresa del genere: restaurare un cinema purissimo, che è totale disponibilità allo sguardo dello spettatore.

Avatar – La via dell’acqua raggiunge, in alcuni momenti del secondo atto, vertici di bellezza visiva e pienezza sensoriale che dimostrano una grande consapevolezza dell’arte. Sono momenti in cui, pure al netto di tutte le possibili criticità del film, lo spettatore si perde definitivamente nel mondo immaginato. È un’esperienza di cinema totalizzante e radicale che mette in contatto in modo immersivo, quasi tattile, chi guarda con ciò che sta nello schermo. In questo senso il sistema filosofico che il regista imbastisce per gli abitanti di Pandora può sembrare superficiale e semplicistico, ma non è che una rifrazione della sua visione del cinema. Quando Cameron parla dell’acqua, parla anche del cinema: questo grembo oscuro e misterioso, eppure irriducibilmente ospitale che è la sala. Uno spazio materno e fluido che chiede di lasciarsi andare: l’acqua, l’elemento che per i Na’vi unisce buio e luce risiede per noi nel raggio polveroso che collega il proiettore allo schermo. Quando Cameron inquadra l’acqua, il suo amore per questo ecosistema si irradia dalle immagini spontaneamente, e il film raggiunge uno strano punto di mediazione tra l’astrazione futurista ma tecnicamente eccellente di Michael Bay e la meraviglia intima e panteistica di Terrence Malick.

Sono entrato in sala scettico e ne sono uscito fiducioso: Avatar – La via dell’acqua è un film di importanza straordinaria per il tempo in cui si trova. È un film quasi sperimentale e paradossalmente – nonostante sia destinato a cifre esorbitanti – non commerciale: non è mosso tanto dalla preoccupazione di incassare, quanto dal desiderio di mettere in scena una passione e un’idea di cinema splendidamente inattuale. In un presente che sembra sempre più voler bruciare tutto, Cameron, con candida determinazione, dice che invece qualcosa si può ricostruire, qualcosa si può ancora salvare. È l’esperienza pura della sala, di quel buio amniotico che sa afferrare lo spettatore e convincerlo ancora una volta a fidarsi.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] James Cameron | USA. Avatar – La via dell’acqua è un film maestoso che, pur con alcune criticità, trova la sua forza nel worldbuilding e in potenzialità visive straordinarie. James Cameron recupera da un lato un modo antichissimo di intendere il racconto come esperienza condivisa e rituale, dall’altro un’idea di cinema inattuale, radicale e totalizzante che mette di nuovo al centro lo spazio della sala. Cinema come acqua in cui lasciarsi andare, pura apertura allo sguardo del pubblico: un atto di fede del regista e dello spettatore. Leggi l’articolo completo di Paolo Prazzoli […]