
Inside Man – La serie di cui avevamo bisogno?
La miniserie Inside Man è da poco arrivata su Netflix eppure ha già conquistato il terzo posto nella Top 10 della piattaforma. Se il posto in classifica sia meritato o meno, dipende dai punti di vista.
Partiamo dalla trama. Inside Man racconta la storia intrecciata di un assassino americano nel braccio della morte (il death row, dove i condannati aspettano il giorno della loro pena) e un parroco inglese che per una serie di malintesi si ritrova coinvolto in un crimine. Il dettaglio fondamentale è che l’assassino incarcerato – interpretato da Stanley Tucci – è in realtà un criminologo che, sotto supervisione del direttore del carcere, aiuta a risolvere casi di omicidi che rispondano a determinati criteri. Come nelle più banali delle storie, la vita dell’assassino americano e quella del parroco inglese si incrociano grazie all’intervento di una giornalista. Beth, la giornalista, è il personaggio che cerca di convincere Jeff, l’assassino, a rilasciare un’intervista, quando inizia ad avere il sospetto che una sua amica in Inghilterra sia scomparsa. E come si poteva intuire, la persona scomparsa, ovvero Janice, è stata rapita dal parroco. Il motivo del rapimento è che Harry, il parroco, agisce contro quella che pensa essere la propria natura per difendere suo figlio, accusato per errore da Janice di essere un pedofilo.
Già da questi dettagli è evidente come la trama sia in certi punti tirata e stiracchiata per far spazio a una sottotrama volendo più profonda, non esattamente più articolata: siamo tutti potenzialmente in grado di fare del male e quindi siamo tutti potenzialmente assassini.

Perché lo spettatore dovrebbe accontentarsi?
Nonostante Inside Man sia stata scritta da Steven Moffat, già autore di serie di successo come Doctor Who e Sherlock, a tratti la storia sembra essere poco sviluppata, troppo veloce e piena di punti di domande. Ci sono ad esempio personaggi che inizialmente sembrano essere rilevanti e che poi spariscono nel nulla, come la madre del sagrestano Edgar o il condannato Dillon, oppure intrecci che sembrano avere una complessità che invece non hanno, come i casi che Jeff risolve durante la serie.
La sensazione è che sia tutto estremamente semplificato, pur sicuri del successo che la storia avrebbe avuto, grazie al genere che ultimamente fa grandi numeri su tutte le piattaforme, ovvero il thriller; anzi – più nello specifico – le crime story. Ma anche andando direttamente al cuore profondo della trama, quello che ci racconta che ognuno di noi ha un “inside man” pronto ad uscire fuori, viene da chiedersi se effettivamente basti così poco per creare un thriller di qualità.

Insomma di per sé la serie lancia spunti interessanti, dalla condanna a morte alla riflessione sui sensi di colpa, dalla brutalità dell’indole umana a quella dell’istinto di sopravvivenza, eppure nessuno di questi è affrontato in modo completo. Quindi ci si chiede: perché lo spettatore dovrebbe accontentarsi? Oltre a questo, ci sono poi dettagli che tornano poco, ad esempio il collegamento tra il suocero di Jeff e il luogo del rapimento di Janice, ma nel tentativo di evitare spoiler, ci fermeremo qui. Basti sapere che bisogna guardarla senza distrarsi, perché molti passaggi sono impliciti in frasi e immagini. Ma per intenderci, verrebbe da pensare che ci sia una versione integrale della serie, che non è quella che è stata rilasciata.
Il punto di vista a favore
Ovviamente c’è un altro lato della medaglia. In primo luogo, la penna di Steven Moffat trova comunque il modo di farsi sentire nei dialoghi e nella costruzione dei personaggi principali, che in questo caso è meticolosa. Poi rimangono da premiare le interpretazioni di Stanley Tucci (Jeff) e Dolly Wells (Janice), che restano estremamente credibili nonostante la poca tenuta della trama. E per finire è una miniserie di soli quattro episodi, per cui di facile fruizione e poco impegnativa.

Il suggerimento è comunque quello di guardare Inside Man per avere un’idea di quello che in questo momento il panorama audiovisivo ci offre come sue punte di diamante – che la serie piaccia o meno, è sempre un buon esercizio di pensiero critico. Il consiglio, poi, è di impostarla in lingua originale, per comprendere meglio i passaggi dall’America all’Inghilterra e altri indizi che vengono lanciati nel corso della storia.
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Appena visto, arrivata in fondo con estremo sforzo. Vero il discorso sugli spunti di riflessione sempre buoni che però sono tutt’altro che originali e affrontati milioni di volte e in svariate salse dagli anni ’90. Non che i buoni temi non siano sempre degni di essere ri-affrontati ma anche questo show come quasi tutti sulla piattaforma è di una prevedibilità disarmante. Vedo gli sceneggiatori che selezionano lo scenario più adatto tra f2, f3, o f4, e la trama, oltre ad essere telefonata, fa anche acqua in numerevoli parti. Attori bravi, anzi troppo (gusto personale, trovo i copioni inglesi logorroici) come spesso accade in questo periodo manierista.