
Grief and Beauty – Milo Rau e la banalità della morte
Di fronte a uno spettacolo come Grief and Beauty di Milo Rau la prima tentazione è – come spesso accade quando si tratta del divisivo regista svizzero – profondersi nell’osannare il “genio” o abbandonarsi all’indignazione.
“Una cosa del genere è immorale…” borbotta contrariata un’anziana spettatrice all’uscita del Teatro Nazionale di Genova. Qui la stagione 2022/2023 è stata inaugurata proprio dall’ultimo lavoro di Rau, Grief and Beauty, spettacolo indubbiamente e positivamente inusuale per l’abitudinario pubblico del TNG che forse sarà costretto a riconsiderare la funzione accomodante troppo spesso erroneamente appioppata all’arte teatrale.

In Grief and Beauty, infatti, Milo Rau sceglie di proseguire l’indagine sulla vita privata – a cui è dedicata la trilogia inaugurata da Family (2020) – affrontando il tema del lutto, della memoria, della perdita. Per farlo Rau decide di proiettare sullo schermo che accompagna lo spettacolo gli ultimi istanti di vita di una persona anziana e malata, Johanna B., che ha scelto di terminare la propria esistenza ricorrendo all’eutanasia e, soprattutto, ha accettato che la sua morte fosse ripresa e poi proiettata durante lo spettacolo.
Questo momento, apice di Grief and Beauty, è però contornato da un quadro scenico meno inedito per chi conosce Milo Rau. Un interno domestico arredato in tipico stile “casa della nonna” – comprensivo di due gufi impagliati e altri oggetti che scopriremo essere appartenuti alla stessa Johanna – ospita quattro ottimi interpreti (Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura e Gustaaf Smans), una violoncellista e un cameraman addetto alla presa diretta. Le immagini appaiono sullo schermo che sovrasta la scena alternate a riprese in differita.

Agli occhi del pubblico appare quindi un quadro che incarna perfettamente il Manifesto di Gent (2018): in Grief and Beauty si recita in più lingue, non tutti gli interpreti sono professionisti, sul palco sono rappresentati generi, etnie ed età diverse e il tutto (compresi luci e suoni) ambisce a essere reale più che realistico in continuità con la produzione di Milo Rau.
Sul palco momenti di interazione che rimandano a situazioni di accudimento familiare – un anziano con problemi di salute, un giovane che se ne fa carico, una ragazza che sembra essere un’infermiera e una donna che rassetta la casa – si alternano a momenti in cui ognuno dei quattro interpreti racconta episodi personali in qualche modo legati alla morte, alla separazione e al dolore. In queste occasioni le riprese in diretta del volto di chi parla sono proiettate sullo schermo su cui, a tratti, appaiono riprese di Johanna ancora in vita. Capiamo che chi è sul palco l’ha conosciuta e che l’esito artistico al quale assistiamo ha visto il contributo di tutte le persone coinvolte.

Racconti di vita vissuta e interazioni finzionali si alternano come quadri giustapposti e nulla sembrano avere in comune se non il fatto di richiamare a momenti dolorosi o a esperienze teatrali che accomunano il vissuto degli interpreti. Ricerchiamo in questa alternanza “il dolore e la bellezza” del titolo, ma la morte, quella vera, mette tutto in discussione.
A sfregio degli antichi greci il decesso viene palesemente mostrato sulla scena e, in questo caso, non si tratta di finzione: vediamo il volto anziano di Johanna contrarsi mentre le parole incespicano e si trasformano in un rantolo, per poi lasciarci nel silenzio quasi immobile, non fosse per le mani affettuose dei famigliari, comprese nell’inquadratura, che non vogliono rinunciare al contatto fisico per quel poco che ancora è possibile.
Piano piano ricominciano i rumori e poi, con essi, la vita (a questo punto non importa se vera o solo rappresentata) e ritorna l’alternanza dei racconti, delle attenzioni affettuose, dei dolori individuali.

Abbiamo assistito alla morte, abbiamo scelto di guardare una determinata immagine che difficilmente riusciamo a definire (cos’è? Una testimonianza, un’intrusione, una memoria, una barbarie?), ma questa esperienza è talmente perturbante che tutto il resto sbiadisce. Sbiadiscono i racconti degli interpreti, che pure sono vivi testimoni del loro dolore, sbiadiscono le luci e suoni sagacemente realistici, gli odori continuamente evocati: in Grief and Beauty, dopo la morte di Johanna, sbiadisce il teatro a cui Milo Rau ci aveva abituati, quel teatro che credevamo essere così materico, potente, nuovo, concreto e dirompente. In parte è inevitabile: non riusciamo a concepire l’idea di rimanere impassibili di fronte alla morte (per quanto scelta, serena e accompagnata dal sorriso).
Qualcosa di viscerale ci impone di commuoverci, di sentirci coinvolti. E non potrebbe essere altrimenti: “Chi è indifferente davanti alla morte non può che essere disumano” pensiamo, nonostante le immagini di violenza e devastazione siano talmente usuali per noi che quasi non ci facciamo più caso, se ci imbattiamo in esse in contesti abitudinari.

Forse la morte richiederebbe più attenzione, più tatto, più leggi che la rendano meno dolorosa? E allora chi siamo noi per assistere a questa scena? Sentiamo di avere questo diritto perché abbiamo pagato un biglietto?
O, al contrario, il problema è che ci siamo dimenticati che la morte fa naturalmente parte della vita e quindi si iscrive in un quadro di quotidianità, anche banali, senza che questo implichi una qualche forma di immoralità? Forse è solo la morte a essere banale come tanti altri momenti delle nostre esistenze, accompagnati da racconti superflui e comportamenti di facciata?
Al di là di questi interrogativi che si rivolgono anzitutto all’indagine sociologica e che rimandano al complesso rapporto che abbiamo con le immagini e con la morte, resta una domanda più amara: a che cosa serve, in questo caso, il teatro che sembra fare più che altro da contorno, senza aggiungere nulla all’immagine, accompagnando forse solo blandamente alla visione?
Che cosa me ne faccio io, spettatrice o spettatore, della rappresentazione di una dinamica di accudimento di un vecchio che sembra in fin di vita (ma forse non lo è davvero, anche se ha detto di avere una malattia terminale) e dei vari racconti sulla morte che sbiadiscono accanto all’immagine della morte stessa?

L’impressione è di essere di fronte a un processo che mira a prender di pancia chi guarda, perché davanti alla morte bisogna commuoversi per forza, anche se condita con una quotidianità così spudorata da apparire banale.
Grief and Beauty di Milo Rau vuole davvero essere uno spettacolo divisivo? O semplicemente ci pone nella stessa situazione che si presenta alla fine di alcuni funerali in cui tutti iniziano ad applaudire le bare e noi magari non condividiamo tanto il senso di questo gesto, ma tant’è lo facciamo lo stesso, per non essere inopportuni?
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