
Foto sbiadite della “Global City”
Gli Instabili Vaganti, duo fondato da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, non sono certo dei novellini: dal 2004, infatti, approfondiscono la loro ricerca artistica, un coraggioso tentativo di coniugare più forme espressive fondendo vari stili di performance che li ha portati a ricevere numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali, esibendosi praticamente in ogni angolo del globo.
La loro ultima creazione, The Global City, prodotta dal Teatro Nazionale di Genova con El Florencio-Festival Fidae (Uruguay) e andata in scena al Teatro Modena di Genova dal 9 al 12 ottobre 2019, resta fedele alla linea di lavoro proposta finora dai due performer: mantenendo come principale riferimento poetico il monumentale romanzo Le città invisibili di Italo Calvino, lo spettacolo si propone di far scorrere sul palco un rullino di ricordi, una serie di istantanee che racchiudono momenti ed impressioni particolarmente significativi, colti durante i viaggi degli Instabili in giro per il mondo: da Città del Messico a Seoul, da Calcutta a Tehran.
L’ambizioso obiettivo non consiste solamente nel trasmettere al pubblico le sensazioni, i sentimenti e le contraddizioni che ciascuna di queste megalopoli racchiude in sé in maniera esclusiva e particolare, ma anche nel trovare un comune denominatore che le avvicini tutte, come un’essenza della città globale che si può respirare in ogni declinazione della cultura umana.
Per raggiungere lo scopo, il duo – affiancato per l’occasione da una compagnia di giovanissimi performer – si serve di un vorticoso mix di tecniche espressive, supporti audiovisivi e influenze artistiche. Lo spettatore assiste, quindi, a una mise en espace composta da elementi di teatro di narrazione, danza, canto, teatro-danza, acrobatica, teatro immagine, giocoleria e arti circensi, coadiuvate da proiezioni di luci e video e da registrazioni audio che oscillano fra nenie orientaleggianti, cumbia e conscious rap. La tecnica non manca. Le energie non si risparmiano. L’intento di accompagnare il pubblico in una dimensione di viaggio, di sospensione fra ricordi, per aiutarlo a non sentirsi eccessivamente scombussolato dagli sbalzi spazio-temporali provocati dall’assenza di un filo narrativo classico, è pregevole. Eppure…
Eppure qualcosa non scatta: gli artisti decollano, il pubblico resta incollato alle poltrone. E si trova pure scomodo: si rigira, scricchiola, beve, tossicchia, commenta negativamente a voce bassa. Addirittura una decina di spettatori si alzano ed escono dalla sala a lavori in corso. Emblematica è la risposta di un bambino a una doppia domanda che il drammaturgo e primo interprete, Pianzola, rivolge direttamente alla platea: «Avete avuto paura?» il bambino controbatte con enfasi: «No!»; «Allora, vi siete divertiti?» il bambino, stavolta con molto meno entusiasmo: «Sì». Sottotesto: «Se proprio vuoi..». Insomma, gli artisti sognano, il pubblico resta sveglio, in posizione di giudizio.
Indubbiamente la risposta del pubblico non è sempre e incontrovertibilmente un parametro valido per giudicare una rappresentazione teatrale, ma è anche vero che un’opera come The Global City si fonda sulle suggestioni che è in grado di produrre sugli spettatori, sulle emozioni che è in grado di far affiorare sulla loro pelle. Non è un gioco che i performer possono giocare da soli mentre la controparte resta distaccata ed emotivamente indifferente a ciò che accade sul palco.
Il problema sta, probabilmente, non tanto nella distanza che intercorre tra il gusto medio dello spettatore italiano e la molteplicità di linguaggi proposti dalla giovane compagnia, bensì nella debolezza delle immagini con cui gli Instabili cercano di riassumere la complessità delle megalopoli. Eccezion fatta per un paio di esempi positivi (Calcutta con un bagno in una bacinella, la skyline di una metropoli occidentale con pile di bicchierini di plastica vuoti), i quadri risultano eccessivamente descrittivi e didascalici, al limite della banalità. Inoltre, quando ci si confronta con temi di ordine sociale e culturale tanto enormi – come il significato di un confine – il rischio di trasmettere un pensiero trito, scontato e apparentemente superficiale è dietro l’angolo.
Far comparire due maschere (in plastica, da Amazon) di Trump e Kim Jong-un e far costruire loro una linea invalicabile, mentre si racconta di come gli USA abbiano diviso in maniera arbitraria le due Coree, non evoca nulla. Se si vuole criticare il modello capitalista e le sue disastrose ripercussioni sull’autocoscienza e sulla scala di valori degli individui, mettere addosso a un personaggio una giacca elegante, fargli ripetere cento volte che sta bene perché ha una giacca nuova, per poi mostrarcelo in una struggente confessione di quanto, in realtà, quella giacca non lo faccia stare poi così bene e di quanto si senta profondamente solo, forse non è la soluzione più originale per commuovere e sensibilizzare. Sono solo un paio di esempi, ma riassumono, purtroppo, lo spirito di gran parte della messa in scena.
Le istantanee della città globale, scattate dalla sensibilità dei due coraggiosi artisti in giro per il mondo, e riproposte sotto forma di quadri sul palco del Teatro Modena di Genova, risultano quasi sempre distanti, poco rilevanti, prive di carattere e mordente. In una parola: sbiadite. E il pubblico si ritrova a guardarle passivamente, quasi controvoglia, proprio come quelle maledette cene in cui qualche amico se ne esce con la brillante proposta di mostrare a tutti le foto della propria vacanza. «Vi va?» «Sì, dai!». Sottotesto: «Se proprio vuoi…».
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