
Una giornata all’Accademia alla Scala tra sartoria e new media
Immagine di copertina: Aula Sarti / Foto di Marta Cervone
Fine luglio, Milano non è ancora spopolata, si avverte anzi il fervore dei preparativi, l’inquietudine di non riuscire a chiudere i progetti, quel maledetto confine tra vita e lavoro che si vede sempre più sbiadito.
A Milano fa molto caldo. In ordine, nei treni regionali fa molto caldo. Nei teatri e nelle Accademie di recitazione fa molto caldo. Da Starbucks si gela. Provo a ripetermi che il sudore è il collante che rafforza l’esperienza, ma quando mi propongono un’intervista in Scala, penso immediatamente all’attrito delle calze dei ballerini, comincio a respirare affannosamente per immedesimarmi nel lento rivolo che si fa strada inesorabile sotto il tutù, una seconda pelle che si avvinghia alla prima nuda e già da sola insopportabile.
Invece, scopro con sorpresa che “la Scala” non è tout court Schiaccianoci Mozart e “appena esci dalla Galleria prosegui la trovi lì”. Nel dedalo della metropoli che non dorme quasi mai, in un’insenatura che sembra un giovane fianco pronunciato tra le ginocchia di Sant’Ambrogio e le scapole di Cordusio, c’è Via Santa Marta, sede della mente effervescente dell’Accademia Teatro Alla Scala, ma anche di molti dei suoi arti e dei suoi organi più vitali.

In effetti, avrei potuto pensarci. Il teatro, diciamocelo sottovoce e un po’ partigianamente, è quell’arte che le contiene tutte. Gode del ritmo della parola e di quello del suono, agita corpi nudi e vestiti, sperimenta con la materia e dissolve il buio in luci accuratamente distribuite. E il cuore di questa filiera produttiva è tutto integrato nell’Accademia stessa, nota certamente per ballerini e musicisti, ma non di meno per la qualità della sua formazione. La ripartizione delle arti e dei mestieri connesse allo spettacolo dal vivo è in Accademia un fortunato quadrifoglio: i dipartimenti di studio sono quelli di musica, danza, palcoscenico e infine management. Se i primi due non necessitano di presentazioni, forse è meno noto che la scena è un ecosistema estremamente complesso e stratificato, e che va diretto e organizzato minuziosamente da direttori e direttrici; che il settore dello spettacolo richiede una continua operazione di sensibilizzazione delle coscienze attraverso le sponsorships e il fundraising; e infine che qualcuno l’avrà pure vestita Nicoletta Manni, che al Barbiere di Siviglia bisogna acconciare i capelli, che quel fumo deve circondare le tre streghe mentre si sentono i lampi (e spero che a un certo punto venga a piovere per davvero a porre rimedio a questa ininterrotta siccità).
Il palcoscenico è davvero la Babele di Bruegel, e l’Accademia ha i suoi personali pittori: gli allievi del corso di Foto, video e new media. Forse, prima di TikTok, l’audiovisivo avrà pure ucciso le radio stars, come si cantava negli anni in cui la semiotica faceva terrorismo analitico sui mass media, e forse in tempi pandemici ci avrà provato con le performance dal vivo. Ma questo scontro tra titani è anch’esso una creatura mitologica: pensate a tutto lo spazio fisico nel sottopalco dedicato ai fotografi dei dieci concerti estivi a cui siete stati quest’estate.
Siamo, è vero, idolatranti del culto dell’immagine fissa. E ora che gli algoritmi ci spingono verso il cinema in formato mini, in un modo o nell’altro proviamo a riprodurre i contenuti della realtà perché, diciamocelo, questo ci rassicura. Posso rivederlo, posso recuperarlo, posso farmi un’idea di quello che non ho visto oppure crogiolarmi nel ricordo.

Comunicare la performance dal vivo è la sfida che anima gli studenti che ho incontrato. Il corso, della durata di un anno, è senza dubbio impegnativo perché a una solidissima preparazione teorica si affianca una pratica assidua. Gli allievi studiano la storia e la critica della fotografia, affrontano elementi di elaborazione digitale, si cimentano nella ripresa e nel montaggio video, sotto la guida del coordinatore didattico Filippo Toppi– mio cicerone per questa visita in Santa Marta – che li orienta in quell’ardito obiettivo di afferrare l’inafferrabile.
La performance è una creatura sfuggente, nasce e si consuma, e per quanto essa si riproduca su patterns e codici prestabiliti, vive nello sguardo dello spettatore che la abita. I fotografi e i videomakers sono, però, spettatori privilegiati: il loro è un occhio rapido, vicino, mobile; possono penetrare negli anfratti invisibili di un ammiccamento, nelle pieghe di un sorriso timido, nei sospiri affaticati che sfuggono al nostro orecchio. Perciò una piattaforma (sic!) della performance non la vogliamo, certo, perché l’esperienza deve sempre essere primigenia, deve vacillare sul tempo che fugge, ma non è detto che dobbiamo arrivare all’opera performativa totalmente vergini. Possiamo vederne foto e video, che certo non la sostituiscono ma ne estendono la portata, ne amplificano i dettagli, ci consentono di studiarla e trasmetterla.
La funzione archivistica, nell’economia didattico-pedagogica dei corsi in Accademia, è centrale. Non solo l’Accademia può raccontare una storia esemplare, ma continua a produrla come centro di riferimento culturale italiano e internazionale. Inoltre, data l’ampia varietà dell’offerta formativa, collaborazioni proficue e trasversali mettono in contatto tra di loro gli allievi.

In questo laboratorio polifunzionale in cui vedo parrucche e ciglia finte, sento anche il pianoforte e l’inconfondibile click dell’obbiettivo che si chiude e si riapre e mi riporta a nostalgici clichè paparazzeschi. L’Accademia è una fabbrica diffusa, tra Campo Lodigiano e Porta Genova, e i suoi allievi hanno a disposizione ampi spazi in cui costruire, plasmare, provare, cucire e infine scattare. Si incrociano le loro storie, si alimentano reciprocamente le loro aspirazioni fino a comprendere che il teatro è bello proprio per questo: perché tutti i suoi elementi esistono per donarsi reciprocamente senso e vita.
Così capita spesso che gli allievi siano impegnati in project work coordinati in cui potersi scambiare la conoscenza sulle fasi di lavoro e studiare la linea di demarcazione tra il momento espositivo e quello paziente che avviene dietro le quinte. L’ultima di queste collaborazioni, mi raccontano Pasqualina Inserra e Valeria Miglio, rispettivamente docente principale e coordinatrice del corso di Sartoria Teatrale, ha visto gli allievi impegnati a ricostruire i modelli d’abito indossati da Leyla Gencer, il soprano noto come “La Diva Turca”. I fotografi hanno documentato il recupero dei bozzetti, la sperimentazione su carta e tela e, dopo la realizzazione, i costumi sono stati trasportati in studio e affidati ai loro occhi interlocutori e alla successiva trasposizione in digitale.

L’Accademia, ho imparato quest’estate, è più del rivolo di sudore sotto il tutù. Sono le gocce di sudore nelle sale di registrazione, vicino alle macchine da cucire, davanti al telo nero che manipola la luce in studio. Soprattutto, l’Accademia non insegna soltanto un mestiere, ma il valore del riconoscimento del mestiere dell’altro. Prolifera dentro Milano con i suoi spazi, con i suoi allievi prestati ad altri palchi, e germina dentro di sé attraverso la cross-disciplinarietà e l’intreccio, rendendo giustizia alla performance e alla densità dei suoi linguaggi, di cui non vogliamo perdere traccia.
Ve la immaginate Yvonne Rainer ripresa con l’Iphone 12? Non lo vorreste un Galileo strehleriano da guardare stasera prima della puntata di House of the Dragons? Io sì, e forse a causa della deformazione da storica, o dell’angoscia della perdita, mi aggrappo alla speranza che tutto ciò che io o i miei nipoti non hanno potuto vedere possa restare in forma documentata, per chi le arti performative le fa e le interroga.

Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
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