
Prisma – L’amore e la ferita
Frammento indeciso del giardino planetario, il Terzo paesaggio è costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo. Questi margini raccolgono una diversità biologica che non è a tutt’oggi rubricata come ricchezza.
G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet 2020
Teniamo per un attimo da parte le parole di Gilles Clément che torneranno utili più avanti nel corso della recensione: il 21 settembre è approdata su Prime Video Prisma, la nuova serie ideata da Ludovico Bessegato (creatore di Skam Italia) e Alice Urciuolo: otto episodi che raccontano le storie di alcuni adolescenti di Latina a partire da quelle dei protagonisti, i gemelli Andrea e Marco. Prisma è un prodotto straordinario, anche in senso etimologico: un unicum nella serialità italiana per l’alta qualità tecnica e l’abilità nel maneggiare tematiche delicate e attuali.

1. Il corpo
La serie, che per la storia di uno dei personaggi si ispira alla prima raccolta poetica di Giovanna Cristina Vivinetto, Dolore Minimo (Interlinea, 2018), ruota attorno all’idea di fluidità, esplorata in varie direzioni. È fluida non solo l’identità dei ragazzi ma anche la natura dei loro rapporti, legami in costante trasformazione; è fluida la potenza dei loro corpi che si scontrano, fanno attrito e si esplorano. Allo stesso modo, fluida è l’esperienza attoriale di Mattia Carrano, che – alla sua prima prova – interpreta entrambi i gemelli protagonisti: con una maturità eccezionale, sa scivolare dalla ruvida tenerezza di Andrea alla dolcezza un po’ ombrosa di Marco, mantenendo sempre una certa innocenza e un candore ad accompagnare i due fratelli come una nota di basso costante. Prisma è il racconto di una ferita: tutti i personaggi sono in qualche modo feriti e agiscono fin dall’inizio per una mancanza. Si muovono nel “dopo”, come se cercassero qualcosa che hanno perso o che non hanno mai conosciuto: la regia si concentra sui momenti apparentemente morti della loro quotidianità, i dubbi, le esitazioni, i silenzi. Anche per questo la serie mostra la sua origine poetica: il ritmo del racconto e le tecniche di montaggio si avvicinano alla poesia, sfiorando il match-cut per passare dal presente al passato e viceversa.

2. Il paesaggio
L’ambiente in cui i ragazzi si muovono – che in questa serie costituisce un vero e proprio personaggio a sé stante – è quello della periferia italiana: i muretti, le piazze semivuote, le villette a schiera. Si tratta di tutti quei non-luoghi, difficilmente definibili, che possono rientrare nella definizione di terzo paesaggio creata da Clément: spazi marginali e di soglia, decentrati rispetto alle grandi città ma proprio per questo portatori di una ricchezza meno scontata. Lo spazio naturale e umano in cui si svolge Prisma è un non-luogo, ma quel “non” indica il contrario di una negazione: indica l’apertura a infinite possibilità, la contestazione di tutte le strade prestabilite. Allora, Prisma sembra raccontare che il vero terzo paesaggio è il nostro corpo: componente indecisa della nostra identità e luogo dell’invenzione possibile, per tornare a usare le parole di Clément; materia rigogliosa in continuo mutamento, che la serialità ha finalmente imparato a rappresentare nel suo divenire. Non solo: se con Prisma ora l’Italia ha trovato un prodotto streaming capace di mettere in scena il corpo di un ragazzo che desidera essere donna, si può davvero dire che terzo paesaggio oggi è anche la narrativa seriale: territorio fluido, liminare e in grado di ospitare una diversità di identità e di storie che diventa ricchezza. Lo schermo della televisione o del device diventa così spazio conoscitivo e di ricerca sia per i personaggi sia per gli spettatori, grazie a una narrazione non affermativa bensì interrogativa, non impositiva ma accogliente.

3. Lo sguardo
Quello che in questa serie fa davvero la differenza è lo sguardo attraverso cui vengono osservate le storie dei giovani protagonisti. Uno sguardo di grande sensibilità e bellezza: la fotografia è particolarmente curata e contribuisce a creare un’estetica che non è mai fine a sé stessa, ma sempre rivolta a esaltare tramite la luce i personaggi e i loro corpi. Una delle scene più belle si trova nel primo episodio: Andrea entra nel salotto di casa, vede un prisma di vetro colpito da un raggio di sole che diffonde nella stanza i suoi vari colori e vi si immerge, lasciandosi andare per un istante. Lì c’è già tutto, c’è il senso dell’intera serie: il suo realismo luminoso che vira spesso verso il poetico e la sua delicatezza piena di empatia. Una delicatezza che si esprime al meglio nei passaggi più intensi e difficili del racconto: le scene che in teoria dovrebbero essere più cariche di pathos sono senza dialoghi e vengono lasciate totalmente ai personaggi. La telecamera si allontana da loro, quasi come se temesse di intromettersi, e i confronti più duri si risolvono fuori dallo schermo. In quelle sequenze il linguaggio visivo raggiunge un rigore che è anche la più alta forma di rispetto verso le storie raccontate.

Prisma è un prodotto che merita di essere visto perché fa bene alla serialità italiana, dimostrando che una nuova strada è possibile. Soprattutto, ricorda l’importanza della rappresentazione del mondo queer: parlando da spettatore, se vedo sullo schermo una vicenda simile alla mia, mi sento compreso e quindi capisco di non essere solo, sento che la mia storia sta a cuore a qualcuno. Tutte le storie contano, perché ognuna di esse è uno dei lati del prisma; ogni storia raccontata è una possibilità di immedesimazione e salvezza, è un punto che ricuce la ferita.
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