
The Whale – Aronofsky, Fraser e un corpo al collasso | Venezia 79
Ci sono film inscindibili dalle prestazioni dei propri attori e delle proprie attrici; The Whale è uno di questi, saturato in ogni anfratto da un Brendan Fraser in stato di grazia, da ora ufficialmente in corsa per la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile di questa Venezia79.
È l’ennesimo caso di rianimazione attoriale per quanto riguarda la cupa filmografia di Darren Aronofsky, che già aveva rilanciato come fenici le carriere impigrite di icone come Mickey Rourke e Winona Ryder. Insomma, dalle provocazioni espressive di π – Il teorema del delirio, passando per il montaggio schizofrenico e allucinato di Requiem for a dream, e finendo alle messe in scena più levigate di The wrestler, Il cigno nero e dei blockbuster successivi, ha sempre ottenuto grandi prove attoriali.

Una delle prime inquadrature di The Whale è una soggettiva digitale: combacia con il monitor di un pc in cui un quadrato nero insegna i fondamenti dello scrivere saggistico ad un mosaico di volti studenteschi intorno a lui. In quel quadratino si nasconde Charlie, insegnante omosessuale affetto da una gravissima forma di obesità, abbandonato al degrado e alla solitudine.
Ad una webcam pudicamente spenta, corrisponde una emarginazione totale dalla società. Così come al riquadro digitale, risponde quello soffocante della planimetria del salotto, improfanabile a causa della tragica fisicità del protagonista, ennesimo limite doloroso e invalicabile nel film.
In questo senso, The Whale è un ritorno a tematiche già frequentate da Darren Aronofsky, non solo per la domesticità tirannica, ma anche per la delineazione di un carattere in costante conflitto con la propria corporeità, già sperimentata in diverse sue opere. Ognuna delle performance più riuscite in un film dell’autore newyorkese è infatti spesso una prova fisica, di lotta e conflitto con il proprio sostrato biologico, qui espanso alla più grave e invalidante delle obesità. Fraser costretto tra protesi e semi-immobilità rende al meglio la resa rassegnata, lo sforzo sovrumano, il tedio della suburbia dimenticata.

L’ottimo uso di musiche rovinosamente solenni nel momenti dei pasti, rendono al meglio il dramma della nutrizione come slancio suicida, della fame come occasione di soffocamento. Analogamente, l’esistenza equivale al dolore, qualsiasi tipo di emozione alla possibilità di un collasso. Tutto in The Whale preludia a una fine annunciata, un esito disastroso, non crepuscolare ma piuttosto biblico-apocalittico, inevitabile e definitivo, come accennano ironicamente i dibattiti pre-Trumpiani alla televisione, insieme al pc unica finestra sul mondo non occlusa o opacizzata.
Eppure, siamo di fronte al più puro e innocente dei protagonisti aronofskyani, carnefice solo dei suoi stessi auto-sabotaggi bulimici. La visione di quest’opera è per questo ancora più sofferente, immersiva, dilaniante per la più desiderata delle immedesimazioni spettatore-personaggio. Appuntita e capace nel restituire il dolore, bambinesca nell’accogliere il martirio di un corpo che collassa, la performance di Fraser svetta sul film, spesso e volentieri oscurandolo. Sembra infatti che le intuizioni creative dell’Aronofsky più anarchico si facciano umilmente da parte, in favore della ricerca di un coinvolgimento emotivo, di una commozione che cerca e trova, in platea.

Adattamento del dramma teatrale omonimo scritto da Samuel D. Hunter, il racconto filmico si acclimata in una gestione dello spazio che ancora si affida alle quinte, alla fissità indeterminata di un esterno fuori fuoco, all’alternarsi forse troppo schematico dei turbamenti dei personaggi comprimari.
Nel limbo frapposto tra l’esistenza e la sua fine, in cui si è obbligati a fare i conti col sudiciume del proprio presente, rimangono infatti i rapporti coi simili, l’incapacità dell’umano di fregarsene ma anche di lasciare che siano altri a salvarlo. È un ritorno a vecchi temi che ha il paradossale sapore di una svolta; come se la narrazione dell’imminenza della fine fosse l’occasione giusta per consentire ad Aronosfky di realizzare il film più umanista, addolorato e forse intenerito della sua carriera, suggerendoci che quello che stiamo guardando sarà probabilmente una tappa precorritrice della sua maturità cinematografica.
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