
Kim Ki-duk – Ricordo di uno spettatore
L’anno scorso, verso la fine di ottobre, mi è stato chiesto di scrivere un pezzo in memoriam di Sean Connery. Mi sono così reso conto che la sua figura era legata, nella mia memoria di spettatore in formazione, a una serie di personaggi (il vecchio scrittore del trascurabile Scoprendo Forrester, tanto per dirne una) che mi avevano lasciato diverse impressioni visive. Soltanto nel momento della morte di Connery – operando una specie di ‘montaggio postumo’, come avrebbe detto Pasolini – mi sono reso conto di cosa legava queste immagini sparse: gesti delle mani, sguardi, dettagli del corpo. Questa breve divagazione, che ricostruisce un percorso mentale del tutto personale e forse poco interessante, è giustificata dal fatto che, mentre nel caso di Connery il dover sistematizzare la mia memoria delle sue interpretazioni ha generato una vera e propria costellazione di frammenti, quando mi sono trovato a ripensare a Kim Ki-duk e a quello che il suo cinema ha significato per la mia formazione, è stata una sola l’immagine che si è imposta nella mia memoria.

Mi riferisco alla locandina di Arirang (2011), in cui si vedono i talloni screpolati e consunti del regista, un paio di ciabatte, accenni di un ambiente umido e apparentemente insalubre. Il film, non certo fra i più noti di Kim Ki-duk e forse neanche fra i più apprezzati, è però uno dei più violenti e personali. Qui il regista si cimenta in un vero e proprio corpo a corpo con l’immagine e con il senso dell’essere regista, lavorando (anche) sul traumatico incidente che ha coinvolto la protagonista di Dream (2008) durante la lavorazione del film. Arirang è un film essenziale, di piccoli gesti e dove il volto di Kim è perennemente al centro dell’inquadratura, come se il regista volesse rivolgere contro sé stesso lo sguardo inquisitore della macchina da presa. C’è, in questo film, una sincerità violenta, che mi ha sempre colpito per la sua radicalità.
Un altro ricordo: il primo film di Kim Ki-duk che io abbia mai visto è stato L’arco (2005). Doveva essere il 2012, ero uno studente e, suggestionato dalla frequenza del corso di storia del cinema, avevo cominciato ad allargare i miei orizzonti cinematografici, cercando nuovi registi, nuove estetiche, nuovi stimoli. Dietro consiglio di un amico ho guardato L’arco e ricordo ancora chiaramente di esserne rimasto quasi interdetto. Un film sospeso in una temporalità tutta sua (dura meno di novanta minuti e non succede quasi nulla; eppure, sembra capace di raccontare una vita intera). Guardandolo, mi chiedevo come fosse possibile fare un film così bello e diverso da quello a cui ero abituato e soprattutto quale fosse l’esigenza che aveva spinto il regista a realizzarlo.

È con L’arco che mi sono avvicinato al cinema di Kim e ho incominciato ad appassionarmici. Sono stati anni di una vera e propria overdose di cinema, nei quali le mie visioni sempre piuttosto disordinate erano punteggiate, come una presenza costante, dai suoi film. Ricordo la perfezione folgorante di Ferro 3 – La casa vuota (2004), le cui sequenze utilizzo ancora oggi quando voglio mostrare ai miei studenti altre possibilità del linguaggio cinematografico. Poi la violenza de La samaritana (2004), che ci ho messo qualche anno a capire, i momenti disturbanti di Time (2007) con il suo gioco delle identità… Ricordo il Leone d’oro vinto da Pietà (2012), che me lo fece adorare nonostante i suoi difetti e anche la stranezza di quel Moebius (2013) che forse non ho mai compreso fino in fondo.
Soltanto quando ho cominciato a risalire verso i primi film mi sono reso conto che l’idea di cinema che attraversa Coccodrillo (1996), Animali selvaggi (1996), Real Fiction (2000), Bad Guy (2001) era in effetti molto diversa da quella che avevo visto sino a quel punto. Non contradditoria, certo, ma sicuramente più sporca, corporea e meno rifinita. C’è come un movimento, nel cinema di Kim, che sembra oscillare fra il massimo di adesione ai destini del corpo e la ricerca della cristallizzazione formale. Certamente sono istanze che attraversano l’intera storia del cinema, ma vederle così perfettamente sintetizzate in un’opera poco più che ventennale ma numericamente così consistente è molto raro.

In tutto questo, pur continuando a sperimentare con le forme e le possibilità della messa in immagine, Kim non sembra aver rinunciato ad offrire un’interpretazione politica del presente in tutto il suo cinema. Lo ha fatto a volte in modo diretto (penso alla vicenda sin troppo leggibile de Il prigioniero coreano, 2016) e altre in modo più sottile (tanti spazi rappresentati nei suoi film mi sembrano anticipare i discorsi esplosi con il fortunato Parasite), ma certamente il cinema è stato per lui uno strumento con cui scrutare il presente andando in cerca di storie, personaggi e situazioni.
L’11 dicembre dello scorso anno, quando la notizia della morte di Kim Ki-duk ha fatto in poco tempo il giro del mondo, ho capito quanto i suoi film fossero stati importanti per la mia formazione di spettatore e di individuo. Anche prescindendo dal ricordo personale, e cercando di mantenersi obiettivi, ci ha senza dubbio lasciato un autore raffinato, mai banale, a volte imperfetto ma sempre profondamente personale. La sua opera, ancora così poco studiata, rimane un monumento alle possibilità di un linguaggio e alle capacità espressive della forma cinematografica.
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