
Hacks – L’importanza di fidarsi del processo creativo
«Will Deborah Vance make history?» chiede la copertina di un vecchio numero del TIME finito nelle mani di Ava (Hannah Einbinder) mentre sta digitalizzando l’intero repertorio comico prodotto da Deborah stessa (Jean Smart) per cui ha appena iniziato a lavorare. All’inizio di Hacks, la brillante serie targata HBO Max ideata da Lucia Aniello, Paul W. Downs e Jen Statsky, già vincitrice di 3 premi nella scorsa edizione degli Emmy Awards e nominata in 17 categorie alla prossima, la risposta a questa domanda appare per molti versi negativa; l’improbabile ma funzionante sodalizio che si instaurerà tra le due protagoniste della serie, però, sembra avere le potenzialità necessarie per sovvertire tale destino.

Lontana dai promettenti albori del suo successo e pur possedendo una carriera pluriennale e una vita apparentemente scintillante, Deborah è infatti ormai intrappolata nella stanca reiterazione di quella che è a tutti gli effetti una caricatura di sé stessa, tanto nel suo spettacolo di stand-up al Palmetto Hotel di Las Vegas (dove si esibisce ogni sera stabilmente da anni) quanto nella sua vita privata. La situazione precipita quando le viene proposto di ridurre il numero degli show e, per tentare di salvare uno dei frutti del suo duro lavoro, la donna assume a malincuore Ava come scrittrice comica. Dal canto suo anche quest’ultima sta attraversando un periodo difficile dal punto di vista lavorativo e personale: a causa di un tweet infelice e di una serie di scelte opportuniste, infatti, la giovane artista è incapace di trovare un impiego a Los Angeles come sceneggiatrice ed è costretta a sua volta, seppur controvoglia, ad accettare l’offerta di Deborah.
La vicinanza forzata nata dalla creazione di questo imprevisto duo artistico darà vita, dunque, ad un complicato quanto spassoso rapporto di amore e odio tra le due protagoniste della serie. Il primo incontro tra Ava e Deborah ne rappresenta a tal proposito un perfetto esempio: dopo un’iniziale malcelata ostilità, le due si lanceranno in un veloce e pungente scambio di battute l’una alle spese dell’altra che, oltre ad incantare immediatamente il pubblico, lo lascerà desideroso di assistere a numerose altre interazioni dello stesso tipo (desiderio che, per fortuna, la serie non tarderà ad esaudire più volte nel corso delle sue due stagioni). Ciò è reso possibile in primis dalla grande intesa condivisa dalle due attrici protagoniste e dalla diversità delle loro carriere: in una dinamica simile a quella dei personaggi femminili da loro interpretati, Jean Smart, dopo una solida carriera in televisione spesso relegata in ruoli secondari, ricopre finalmente il meritato ruolo da protagonista, mentre Hannah Einbinder, al primo ruolo importante sul piccolo schermo, riesce a tenerle testa in maniera egregia.

L’incontro/scontro tra Ava e Deborah è innanzitutto generazionale: se Ava è una giovane esponente della generazione Z senza filtri, woke e incasinata, che si preoccupa a malapena del suo aspetto fisico ed è convinta che la struttura degli jokes sia spesso troppo maschile («I had a horrible nightmare that I got a voicemail» è una delle battute proposte dalla ragazza a Deborah ed è a dir poco esilarante la reazione di quest’ultima); Deborah invece è una leggenda della comicità con una lunga carriera alle spalle, una vera propria diva ossessionata dalla sua immagine che, grazie alla sua etica lavorativa e a numerosi sacrifici derivati da essa, è riuscita ad includere la propria voce nel club tutto maschile della stand-up, finendo però ad un certo punto per dimenticare quale fosse.
Uno dei grandi meriti di Hacks consiste proprio – anche e soprattutto grazie alla differenza di età che separa le due donne – nel riuscire a bilanciare bene le differenze e le similarità di entrambe facendo pensare che sia un peccato che personaggi femminili come Deborah facciano ancora raramente il loro ingresso nei prodotti audiovisivi. Opposte per molti versi eppure straordinariamente simili in altri, dunque, l’approccio posseduto dalle due donne rispetto alla comicità, al mondo che le ricorda e a sé stesse appare distante ma complementare.
Fin dai primi episodi, lo show rende perciò chiaro quanto, per poter uscire dallo stallo lavorativo e personale in cui sembrano essersi arenate, è fondamentale che Ava e Deborah trovino un comune terreno di incontro, edificato in ultima istanza nel complesso rapporto madre-figlia instauratasi nel corso delle stagioni: solo attraverso di esso le due artiste riusciranno a creare continuamente l’occasione per spingersi a vicenda, apprendendo dal confronto reciproco e riavvicinandosi alla propria verità. Per tale motivo è necessario, anzitutto, che entrambe riacquistino la fiducia nel processo di ideazione e produzione artistica al fine di non lasciarsi immobilizzare dai molteplici ostacoli presenti nella carriera come nella vita. «Every game, win or lose; it’s just part of it. You’re on the path to something bigger so the individual setbacks don’t get you down. Maybe you should just trust the process» dirà significativamente ad un certo punto Ava a Deborah, finalmente comprendendo uno degli insegnamenti più belli tramandatagli dal padre.

Negli ultimi episodi della prima stagione, Ava convincerà allora Deborah a fare un passo estremamente spaventoso e quest’ultima accetterà coraggiosamente di scrivere insieme un intero nuovo spettacolo da portare, durante la seconda stagione, in tour negli Stati Uniti. Una volta on the road, proprio come le sue protagoniste, anche Hacks finirà per concedersi una vulnerabilità maggiore rispetto al passato senza nascondere le prove e i tentativi precedentemente compiuti. Ciò è evidente nella scelta di testare un nuovo equilibrio tra i personaggi secondari dello show che, oltre a non essere più usati come meri espedienti comici, saranno interpreti principali di nuove storyline narrative primarie. In tal senso è possibile rintracciare una specularità tra gli episodi delle due stagioni della serie e lo spettacolo di Deborah: se i primi appaiono perfettamente strutturati, i secondi si permettono invece una maggiore sperimentazione.
Tra errori e successi, il viaggio intrapreso dalle due comedians avrà la funzione primaria di far ricordare a Deborah quale sia la vera anima della stand-up: una confessione a cuore aperto della propria verità di fronte ad un pubblico disposto ad accoglierla. Con l’aiuto di Ava, la donna dovrà perciò riuscire a trovare, attraverso la comicità, la formula giusta per coniugare l’urgenza di raccontare la propria storia con l’importanza di assumersi la responsabilità dei propri sbagli e delle proprie scelte. Nella nuova routine, allora, abbandonata la versione edulcorata e un po’ finta di sé stessa, emozioni spontanee inizieranno a scalfire l’impeccabile presenza scenica dell’artista mentre i costumi scintillanti indossati al Palmetto Hotel lasceranno ora il posto ad abiti più sobri e personali.

Per le protagoniste di Hacks, infatti, fare comicità non ha mai solamente significato imboccare un’opportunità lavorativa qualsiasi, ma ha sempre rappresentato uno strumento vitale per poter processare le proprie emozioni e il proprio passato, scucendosi abbastanza per fare emergere sentite verità individuali. Non è un caso dunque che le scene più interessanti della serie siano quelle in cui le due comiche uniscono le loro menti nel processo di joke writing: è in tali sequenze che, tra le risate condivise, si apre uno spazio in cui è possibile mostrare la propria autenticità, in tutta la sua imperfezione.
Hacks riesce perfettamente a costruire due personaggi femminili tanto poliedrici quanto interessanti e non ha paura di raccontarli nella loro versione peggiore come nel loro imprescindibile bisogno di evoluzione. Nella comicità come nella vita per Deborah e Ava – ma forse un po’ anche per gli spettatori – è essenziale rimparare to trust the process: è solo attraverso la ricerca continua della giusta combinazione dei pezzi della propria esistenza che si può provare a scovare il significato nascosto in mezzo alla casualità della vita. Entrare nella Storia allora diventa tanto importante quanto riappropriarsi della narrazione della propria, finalmente senza condizioni.
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