
Un couple – Un discorso sull’amore | Venezia 79
Inevitabile che l’approccio di lettura e scrittura di quest’ultimo, piccolo (soltanto nella durata, appena sopra l’ora) film di Frederick Wiseman, debba passare per una semplice quanto decisiva constatazione: ad oggi, con più di 60 anni di cinema alle spalle, e tutto di matrice documentaria, Un couple è il primo titolo del regista americano a poter essere opportunamente considerato di finzione. Certo, alla base c’è una realtà fattuale e storica di spessore, cioè i passi diaristici di Sofia Tolstoy, moglie per oltre trent’anni del grande scrittore russo Leo Tolstoy. Ma, inevitabilmente, dovendo mettere in scena un passato distante e che non attiene al tempo e all’esperienza di Wiseman, il ricorso all’immaginazione è d’obbligo, per quanto in uno scenario estremamente semplificato. Sofia Tolstoy (interpretata da un’eccellente Nathalie Bouetefeu) è l’unico personaggio, l’unico corpo in campo, che dunque non dialoga ma monologa tra campi totali e primi piani, e interrotta soltanto dalle costanti farciture di inquadrature legate all’ambiente circostante, il bellissimo giardino della Boulanger sull’isola di Belle Île in Bretagna, di cui ci vengono mostrati ampi scorci tra ruscelli e stagni, le rane che gracidano sulla superficie d’acqua, gli alberi in fiore, ma pure i dettagli infinitesimali delle cortecce e delle ragnatele, degli insetti che sbucano da piccole fessure nel terreno. Non solo, uno soltanto è l’oggetto attorno al quale ruotano le riflessioni ossessive di Sofia: il rapporto sempre irrisolto e scostante col marito. Un suggerimento si trova già nel titolo: una coppia, che è un binomio, non può risolversi in una prova invece solo monomiale.
Sofia parte dalla necessità di mettere per iscritto tali ossessioni, perché assegnandole alla custodia delle parole, alla fissità dell’inchiostro su carta, può tentare di non dare campo alla resa, di strutturare in un discorso univoco le conflittualità col marito, che sono invece informi, debordanti, in espansione. Da qui, prendono ad accostarsi e sovrapporsi piccoli tasselli, tutti più o meno decisivi secondo la donna, che informano il suo matrimonio su vari piani, passando da quelli più intimi ed episodici (come le esplosioni di gelosia di Lev) ad altri di carattere universale, che invece restituiscono l’impressione di un amore in perenne burrasca, di una gigantesca cattedrale dalle forme vertiginose e ottundenti. Come si dà una misura, come si tiene a freno l’irrefrenabile? Sembrerebbe che una soluzione debba essere negata, perché anche l’accostamento di questi tasselli legati a un matrimonio trentennale dicono di una continua propensione al ribaltamento. Chi ama di più chi? Chi cede il passo all’ira? Chi alla mortificazione? Sofia si destreggia, incassa il colpo e fa per rilanciarsi, più e più volte, modulando una prossemica in primissimo piano che nel sollevamento degli angoli della bocca e nell’ammorbidimento degli occhi comunica fiducia, una speranza residuale, per poi sciogliersi, reiteratamente, nel dissenso e nella desolazione grigia.

Sono pochissime le volte in cui accade, ma quando Sofia concede lo sguardo alla camera in modo ravvicinato, dunque allo spettatore, non è mai appunto per consegnargli una epifania, un pertugio di chiaroveggenza, ma il suo opposto: è una disperata richiesta d’aiuto, che è tanto più significativa se messa in correlazione con il naturale (e integralmente documentaristico) straniamento che Wiseman ha per la formula dello sguardo in camera. Una scelta che definisce una traccia nuova con cui il regista interroga il reale. Assottiglia la distanza storica, la avvicina al presente mediante il contatto col nostro sguardo e parlandoci di cose universali; d’altronde, l’amore rinnova le proprie forme ma produce nel corso della storia gli stessi tormenti, livori, le stesse detonazioni e pulsioni. E tiene tutto assieme, Wiseman. Sbircia nel passato, tocca l’immaginazione, ma opera nello stesso solco di sempre, quello di chi apre margini nella ricezione delle cose che abbiamo attorno e ne mostra i meccanismi inintelligibili. Che si tratti di un edificio politico e delle relazioni di potere (City Hall), della lettura e diffusione della cultura (The New York Public Library e Berkley), o, appunto, dei nostri sentimenti.
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