
Eyes Wide Shut e dintorni – Intervista ad Emilio D’Alessandro, autista di Stanley Kubrick
Di Ludovico Cantisani
Emilio D’Alessandro, classe 1941 e originario di Cassino, emigrato in Inghilterra nei primi anni Sessanta ebbe una breve carriera da pilota automobilistico prima di diventare, dal 1971 al 1999, anno della morte del regista, l’autista e l’assistente personale di Stanley Kubrick. Alla sua incredibile storia sono stati dedicati il libro Stanley Kubrick e me, edito da Il Saggiatore e curato da Filippo Ulivieri, e il documentario S is for Stanley – Trent’anni al volante per Stanley Kubrick, diretto da Alex Infascelli e premiato ai David.
L’intervista che segue è un estratto dal saggio Viaggio al termine del Novecento. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, a cura di Ludovico Cantisani, pubblicato dall’Accademia del Cinema UniARES di Palermo.

Come hai conosciuto Stanley Kubrick?
La mia conoscenza con Stanley Kubrick risale ai primi anni Settanta. Io sinceramente ai tempi non sapevo nulla di cinema: ero semplicemente un autista. Mentre giravano Arancia Meccanica le strade si ghiacciarono, e i sindacalisti delle troupe proibirono a tutti gli autisti cinematografici di guidare in quelle condizioni climatiche: allora contattarono l’agenzia dove io lavoravo come tassista privato, e chiesero se ci fosse qualcuno capace di guidare in quelle condizioni. Gli dissero “sì, ne abbiamo uno”, e chiesero a me di trasportare questo grosso fallo dalla fabbrica in cui era stato realizzato alla location dove stavano girando la scena nella scuola di yoga, dall’altro lato di Londra, per poi riportarlo indietro. Essendo rimasto piccato dal comportamento dei sindacati, e felice del mio lavoro, Kubrick si era segnato il mio nome e il mio numero: io però non avevo conosciuto lui direttamente, e iniziai a lavorare semplicemente per la sua casa di produzione, che era la Hawk Films.

Quando e come ci fu il tuo primo incontro con Kubrick?
Dopo due mesi che lavoravo come autista per la Hawk Films la segretaria mi disse “ti rendi conto con chi lavorando?”. E io dissi: “sì, per la Hawk Film”. “No, con che regista?”, fece lei. “Chi è il regista?”, “Stanley Kubrick”. Io non lo conoscevo e non lo nascosi, anzi chiesi anche “e che fa il regista?”. “Lui sta dietro la cinepresa”. Buono a sapersi. “Kubrick mi ha detto che ti vuole conoscere: o domai o dopodomani, se hai una mezz’oretta libera “. Così fu il giorno dopo ci siamo incontrati e ho conosciuto Stanley all’ingresso della sua casa. Notai che stava venendo verso di me una persona vestita in maniera informale, e davo per scontato che fosse il giardiniere: invece era lui in persona, e mi disse “Good morning, I am Stanley Kubrick”. “Buongiorno”, feci io, “sono Emilio D’Alessandro”.
Mi fece qualche domanda e poi mi disse: “allora ci vediamo domani, continua a lavorare. Grazie”. Io ero stupito: mi era capitato di incrociare altri registi, tutti ben vestiti e profumati, lui invece mi ricordava mio padre, che era un contadino. Mi piacque da subito, e così cominciò la mia conoscenza con Stanley Kubrick. Sul set di Barry Lyndon mi nominò ufficialmente “suo autista personale”, e continuai a lavorare ininterrottamente con lui anche per Shining e Full Metal Jacket. Di film in film il lavoro aumentava sempre di più e alla lunga siamo diventati come padre e figlio. stanley kubrick emilio d’alessandro

Nel documentario S is for Stanley racconti che verso la metà degli anni novanta decidesti di tornare in Italia licenziandoti da Kubrick. Come mai lasciasti il lavoro, e per quale motivo decidesti di tornare?
Io volevo tornare in Italia, trascorrere con i miei genitori gli ultimi anni delle loro vite, curare i campi di famiglia. Nel 1994 lo dissi chiaramente a Stanley, e lui fece “va bene”. Ancora non aveva iniziato Eyes Wide Shut, avevamo fatto tutti i preparativi ma il film ancora era lontano da iniziare. Dopo due anni in Italia io e mia moglie decidemmo di tornare in Inghilterra per salutare i nostri figli; ma siccome Kubrick mi telefonava spesso, raccontai anche a lui che stavo per tornare, e mi propose di vederci. Gli chiesi notizie su quel film che avevamo iniziato a preparare assieme, e lui con aria affranta ha detto che non era sicuro di riuscire a farlo, che forse non se la sentiva: poi però mi ha chiesto se non potevo dargli una mano per le sedici settimane che sarebbero durate le riprese, per essere sicuro di avere anche il mio aiuto nel completarlo. Io ero incerto ma lui insisteva, dicendomi anche che gli attori erano Tom Cruise e Nicole Kidman, che però erano per me dei perfetti sconosciuti.
Io alla fine dissi: “Stanley, questa per me era una semplice visita pomeridiana per prenderci assieme una tazza di caffè, ti posso dare la risposta domani: tu sai che su tutti i tuoi film ci abbiamo passato gli anni, come pensi di finire questo in sedici settimane? Domani ti do la risposta, Stanley”. “Va bene”, fece lui, “a domani”. Io parlai con mia moglie molto realisticamente – dicendole che saremmo dovuti stare di nuovo con Stanley “per altri due o tre anni” – ma mia moglie trovò che, essendo da poco nata la nostra nipotina, sarebbe stato bello vivere di nuovo in Inghilterra. Trovammo qualcuno a cui affidare i campi in Italia e decidemmo di restare con lui.

Come annunciasti a Kubrick il tuo ritorno al suo fianco?
Il giorno dopo ripassai a Saint Albans e Stanley scese dal suo appartamento con un volto un po’ più contento. “Now, what is the answer?”, mi chiese, e io feci: “va bene Stanley, lo farò”. Il sorriso che Stanley Kubrick fece in quel momento non lo dimenticherò mai. “Allora io torno al mio appartamento a lavorare, tu sistema le ultime cose in Italia e poi non ti preoccupare per quanto tornerai, penserò io alla vostra accomodazione”. Davvero non avevo mai visto quella faccia così tanto contenta. Vivere al fianco di Stanley Kubrick ha comportato tanti sacrifici per me e per la mia famiglia, ma non mi posso lamentare perché con lui ho lavorato trent’anni: con i miei genitori ho trascorso appena diciassette anni. Allora chi era la mia famiglia? Sono stati Stanley e Christiane.

In Eyes Wide Shut Kubrick ha voluto inserire un omaggio a te, intitolando “Da Emilio” uno dei ristoranti delle strade del Village in cui vaga il personaggio di Bill Hartford, e ti ha chiesto addirittura di fare un cameo nei panni di un edicolante. Come nacquero queste due idee e come ti sei trovato a recitare davanti a Tom Cruise? Quanto tempo richiesero le riprese di quella scena?
A recitare con Tom, nessun problema. Il caffè “Da Emilio” in realtà si doveva al fatto che, nel quartiere di New York dove abitavano i suoi genitori, c’era un caffè che si chiamava allo stesso modo: e siccome c’era questa coincidenza, lui, pensandoci sopra, ha voluto ricreare la stessa identica insegna; poi però trasformò quel ristorante anche in un piccolo omaggio a me, e ci facemmo una bella foto insieme sotto quell’insegna. Per quanto riguarda il ruolo dell’edicolante qualcuno gli aveva fatto notare che io avevo una faccia da edicolante da New York; e allora Kubrick si era avvicinato a me facendomi “mica ti dispiace fare questa piccola parte?”. “Stanley, che problema c’è? Io lavoro per te, se non faccio questo faccio un’altra cosa durante la giornata: quello che vuoi, faccio”. Lui è rimasto contento, ma quello che doveva essere un ruolo di poche ore ha richiesto due settimane. Giravamo un’ora a sera, e a ogni sera cambiava angolazione. Sono rimasto contento e anche lui è rimasto contento. La figlia alla fine mi disse “Emilio, ce l’hai fatta!”. stanley kubrick emilio d’alessandro

Come mai pensi che Kubrick fosse tanto meticoloso sul set? A cosa si doveva il fatto che le riprese dei suoi film durassero molto più di quelle degli altri registi?
Stanley aveva un’attenzione tecnica assoluta su ogni cosa. Quando si facevano i provini, ad esempio, per la scena del ballo di Tom Cruise e Nicole, lui guardava, faceva mettere i segni delle posizioni sul pavimento dove gli attori dovevano appoggiare il piede, andava a ritmo con la musica… Ci voleva tempo per fare questo. Una sera, per fare una ballata, io e una signorina tedesca che faceva da “camerawoman” siamo stati tre ore a ballare davanti a lui. Io non ce la facevo più, ma lui voleva vedere dove cadevano naturalmente i piedi, che ritmo seguivamo etc. Lui sentiva e guardava. Ecco a cosa si doveva la sua precisione. E se trovava qualcosa cambiata, siccome lui fotografava ogni cosa, chiedeva subito “perché avete rimosso questo segno da qui? e chi?”, “Guarda qua, sulla foto è questo”. E allora si rifaceva. Questo impiegava tanto tempo, però. Gli altri registi, come ad esempio Steven Spielberg e George Lucas che erano i suoi grandi amici, lo cercavano per fargli delle domande, per chiedergli consigli di regia: e Stanley diceva “dovete far capire al pubblico ogni cosa, ogni dettaglio preciso”. Era questa la ragione della precisione di Stanley, perciò ci impiegava tanto tempo a fare film.

Come hai reagito alla notizia della morte di Kubrick? Come si svolsero poi gli ultimi lavori sulla post-produzione del film prima della sua uscita nelle sale americane il 16 luglio 1999?
Fu un periodo molto duro per me. Alla morte di Stanley, la moglie ed il cognato mi hanno detto “guarda, tu conosci il suo appartamento e le sue cose private: devi archiviare tutto, le cose segrete che tu sai o lui sapeva, prenditi il tempo, metti tutto in scatola con data e altro, ‘urgente’, ‘non urgente’, o ‘to be destroyed‘”. Ho dovuto fare questo lavoro di archiviazione da marzo fino ad agosto 1999. Quando finii il lavoro, le scatole erano tutte datate, sigillate ermeticamente e segnate con la mia iniziale. Stanley mi lasciava sempre note con la mia iniziale, “E.”, affinché sapessi che quella nota era per me: così lasciai le scatole, consegnai le chiavi, e mi vennero a dire “se vuoi restare c’è lavoro per te con altri registi”. No! Io avevo promesso a Stanley che ci avrebbe divisi solo la morte. Lui purtroppo è morto per primo e io me ne vado. E così fu. Quando è morto per tre anni sono rimasto “in un pozzo oscuro”, non parlavo con nessuno: non ci riusciva più, ero in un mondo di silenzio. Dicevo a mia moglie “Era meglio se morivo io”. Con l’aiuto di certe persone che mi hanno incoraggiato a parlare io mi sono liberato; tra di loro c’è anche il dottor Paolo Morrone, un grande amico dentista qui a Cassino, che mi ha incoraggiato a scrivere il libro con Filippo Ulivieri. stanley kubrick emilio d’alessandro
Qual è il ricordo più bello che conservi della lavorazione di Eyes Wide Shut e, in generale, della tua frequentazione con Stanley Kubrick?
Il momento più bello è stato quello che ho detto prima, il suo sorriso quando gli ho detto che sarei ritornato a lavorare con lui. Il sorriso che fece in quel momento fu indimenticabile, e finché vivo me lo ricorderò.
Si ringrazia il critico cinematografico Gerry Guida per aver permesso quest’intervista
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