
Salone del Libro 2022 | Elio Germano racconta “A piedi nudi sulla terra” di Folco Terzani
di Mari Truttero

L’audiolibro di A piedi nudi sulla terra è un progetto iniziato da uno scherzo: Elio Germano, infatti, aveva conosciuto il famoso santone torinese Baba Cesare in India quando era andato a trovarlo in compagnia di Folco Terzani; e dopo il viaggio, un po’ per scherzo, appunto, e un po’ per deformazione professionale, aveva preso a imitare la parlata di Baba Cesare. A Folco Terzani l’imitazione fa ridere, ma lo fa anche pensare: e così propone all’attore di dare effettivamente voce al mistico torinese, trasformando il suo libro in audiolibro. L’attore accetta e oggi possiamo ascoltarne l’ottimo lavoro, curato dalle edizioni Emons.
Il lavoro è, di fatto, notevole: nove e più ore di registrazione in cui Elio Germano piega la sua voce, assumendo i modi e i toni propri di Baba Cesare (accento torinese compreso), che rivive parlandoci in prima persona, come se fossimo seduti insieme a lui davanti al dhuni, il fuoco sacro attorno a cui i santoni indiani si raccolgono e attorno a cui Baba Cesare, da bravo italiano, era solito cucinare per tutti. L’interpretazione di Elio Germano riporta in vita il sadhu con tutte le pause, le esitazioni, i versi propri del parlato (caratteristico della sua parlata, per esempio, è un lungo rantolo affannoso che di tanto in tanto interrompe il discorso).
Ma qual è la storia che porta un ex-vetrinista torinese, semplice cittadino medio, fino alle sacre sponde dell’India? Che Folco Terzani si sia interessato alla vicenda non ci stupisce troppo: la sua infanzia, passata a fianco del famosissimo padre giornalista qui e là nel Sud-Est asiatico, gli ha ben presto rese familiari le figure dei sadhu, o baba, gli asceti indiani che tutti bene o male abbiamo nel nostro immaginario, con le loro tuniche arancioni, i volti dipinti e i rasta. Per Folco, Baba Cesare è la persona perfetta per capire finalmente chi siano i baba, che vita facciano: Baba Cesare gli può spiegare tutto, e in italiano.
Inizialmente finisce nelle prigioni torinesi perché gli viene trovato addosso un mezzo spinello: gli vengono dati quindici mesi, insieme all’etichetta di “drogato”. Per ribellione in prigione inizia a drogarsi veramente. Quando esce, ormai con la fedina penale sporca, non ha più nessuna voglia di reinserirsi nella società.
È una vita che giustamente Elio Germano ha definito come un incrocio tra Trainspotting e Siddharta, tra dipendenza e misticismo. Il collegamento tra questi due poli lo spiega Baba Cesare stesso quando dice che l’idea della rinuncia al superfluo è facile da capire per un eroinomane, in quanto persona che ha già rinunciato a tutto in nome dell’eroina: basta abbandonare l’eroina a quel punto si ha davvero rinunciato a tutto.

Libro e audiolibro mettono bene in chiaro una cosa: Baba Cesare è stato un mistico, un santone, ma lungi dall’essere uno stinco di santo, cosa che ci tiene a precisare lui stesso. La rinuncia al superfluo significa anche l’aver lasciato a Torino i propri figli, rinunciare a crescerli. Si può senza dubbio apprezzare la sua autoironia, la schiettezza: Baba Cesare per esempio racconta, quando decise di fare la vita del sadhu, di averne subito comprato la tipica veste, di un bel color zafferano, rispondendo a una scelta prettamente estetica.
Insomma, dalle parole di Baba Cesare non aspettatevi nessun moralismo, e questo forse è quello che ha reso così bello stare in sua compagnia per chi l’ha conosciuto. Il fatto che non mitizzasse nulla e che non desiderasse tesserarti, convincerti: quello che gli interessava era continuare la sua ricerca, e tanto basta.
Si ha l’impressione che in India Baba Cesare sia andato a cercare qualcosa che qui in Italia si sta perdendo: quel mondo magico – nel senso proprio di mistico, rituale, simbolico – che cresce nella dimensione rurale, dove l’individualità si stempera nel paesaggio che lo circonda e può dare spazio anche al non-sense, al non-giudizio. Una dimensione che in Occidente si tende sempre più a guardare dall’alto verso il basso, ma con il dubbio a volte che si starebbe meglio lì, in basso.
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