
Film che pensano – La filosofia cinematografica di Umberto Curi

Classe 1941, sin dagli anni Settanta docente all’Università degli Studi di Padova, Umberto Curi è uno dei più pubblicati filosofi italiani. Accanto a un notevole curriculum accademico, Curi ha pubblicato decine di testi divulgativi, che spaziano per tematiche molto diverse quali la guerra, la razionalità scientifica, l’amore, l’eros e la passione. Se la sua più recente pubblicazione, Fedeli al sogno, è di notevole interesse nel proporre un atteggiamento nei confronti della vita onirica che svii dagli impulsi interpretativi di Platone e di Freud, Film che pensano, uscito nel 2020 per Mimesis, è la testimonianza di una pluridecennale attenzione nei confronti del medium cinematografico.
Qualunque filosofo voglia accostarsi ermeneuticamente al cinema trova davanti a sé una pietra d’inciampo: L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, le due opere che il pensatore francese Gilles Deleuze dedicò negli anni Ottanta ad una tassonomia dell’immagine cinematografica. Già nelle prime pagine di Film che pensano Curi paga il suo tributo nei confronti del maître à penser francese, citando anche le sue affermazioni sul cinema in Pourparler, ma rivendica l’intenzione di voler attingere anche alle riflessioni di altri pensatori “relativamente lontani dall’approccio deleuziano”, come Jacques Derrida o il recentemente scomparso Jean-Luc Nancy. Citando Deleuze, Curi afferma che la correlazione tra cinema e filosofia si deve anzitutto al fatto che queste due discipline condividono la “capacità di creare”, e se il cinema plasma dei blocchi di movimento/durata, la filosofia “crea concetti”.
Altrettanto inevitabile del richiamo a Deleuze e agli altri pensatori del cinema, è nel libro di Curi il frequente riferimento alla Poetica aristotelica, il testo in cui lo Stagirita pose le basi della teoria della tragedia: il cinema contemporaneo, soprattutto di area americana, si è dimostrato attento più che altro alle teorizzazioni di Joseph Campbell sul mito, e quindi se vogliamo a Omero e agli altri epici; ma l’applicazione che Curi fa di alcuni concetti di teoria della narrazione originariamente proposti da Aristotele resta ugualmente illuminante, soprattutto quando si parla del piacere spettatoriale che il pubblico prova nel seguire le vicissitudini e anche le disavventure del protagonista.
“Il cinema è la forma moderna di myhtos”. A quest’affermazione si potrebbe condensare tutta la prima parte del volume di Curi, un lungo excursus metodologico che vuole dimostrare che “cinema è filosofia”. Nella seconda parte, senza affatto ridurre i richiami sia a filosofi dell’antichità greca che a pensatori del Novecento, Curi indossa in maniera più decisa i panni del critico cinematografico, e affronta capitolo per capitolo la filmografia di una serie di importanti registi del cinema italiano, europeo e americano. Alcuni di questi sono grandi nomi, immancabili, come Steven Spielberg, Federico Fellini o Billy Wilder; eppure, due dei momenti più illuminanti sono i due capitoli in cui Curi parla rispettivamente del senso dell’epica nel cinema dei fratelli Taviani, e del cinema di Nanni Moretti, da lui giudicato “antitragico”.

La terza parte del voluminoso saggio è quella più impressionistica: raccoglie infatti una lunga serie di interventi rilasciati da Curi nel corso degli anni a proposito di singoli film, vere e proprie “recensioni d’autore” in cui continua ad essere presente in modo denso l’immancabile impronta filosofica. I film citati a questo punto sono diversissimi: si va da Brockback Mountain ad Eyes Wide Shut, da L’anno del dragone a La Passione di Cristo, da La finestra sul cortile a Mulholland Drive, senza disdegnare affatto blockbuster come The Day After, Sliding Doors o Titanic.
Qui sono molti i passi affascinanti. Per ricordarne un paio, la rilettura archetipica de La vita è bella di Roberto Benigni, con la capacità enigmistica di risolvere gli indovinelli del protagonista Guido che viene accostata ai più alti esempi del teatro tragico dei Greci; oppure, nel capitolo in cui si parla del disaster movie The Day After, l’affermazione secondo cui i film catastrofisti all’americana sono l’esatto opposto della tragedia secondo i canoni aristotelici, perché in questo genere di film “l’induzione della pietà e del terrore è interamente affidata allo spettacolo scenico”, mentre, notoriamente, le tragedie greche proibivano la rappresentazione di fatti di sangue sulla scena e affidavano tutto l’aspetto patetico alle battute degli attori e a una più indiretta “messa in scena della visione”.
“La critica del cinema diventa cattiva quando si chiude nel cinema come in un ghetto”, diceva Gilles Deleuze: Film che pensano di Umberto Curi prova e in larga parte riesce a portare una boccata d’aria alla critica cinematografica e ai film studies, troppo spesso eccessivamente raggomitolati sul cinema in sé e per sé per riuscire ad aprirsi anche ad altre nozioni e ad altre arti. Curi non affronta il cinema con il distacco del pensatore, per molti versi è ben più passionale di un Deleuze: nel testo non cede mai al tifo o alla predilezione per un regista piuttosto che un altro, eppure in certi passaggi, come nella polemica contro l’abitudine delle distribuzioni italiane di modificare a volte radicalmente i titoli dei film, si può ravvisare una decisa aderenza ai comportamenti tipici di un cinefilo.
A volte gli iniziali excursus filosofici su cui spesso si aprono i singoli capitoli possono risultare un po’ lunghi e non di immediata connessione con il film di cui poi Curi andrà a parlare, ma nel complesso Film che pensano è un riuscito esercizio di “pensiero sullo schermo”. In un periodo in cui la stessa critica cinematografica si sta atrofizzando non meno del suo oggetto, in cui parlare di cinema rischia sempre più di diventare una praxis ombelicale, testi come questo, tanto rigorosi quanto originali, sembrano in grado a volte di riscattare l’Immagine stessa, dalla prevedibilità della sua ripetizione.

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