
Mittelyoung 2022 – Imprevisti | Teatro
Giunta al suo secondo anno di vita festivaliera, Mittelyoung, iniziativa nata in occasione del trentennale di Mittelfest come sua eredità ed estensione artistica, conferma e addirittura aumenta l’interesse italiano e europeo nei confronti delle arti performative delle nuove generazioni: più poltrone, più ospiti, più collaborazioni per il festival di teatro, danza e musica dedicato agli artisti under30 provenienti dal bacino della Mitteleuropa.
L’intuizione riuscita, quella del direttore artistico Giacomo Pedini, che la sperimentazione, ii nuovi linguaggi e le avanguardie della classe di artisti nati dopo gli anni ’90 fossero le lenti giuste, o meglio, i supporti più dotati per volgere lo sguardo artistico verso un domani incerto. Interrogare la generazione cresciuta nell’epoca del non-programmabile sugli “imprevisti” del quotidiano, dell’esperienza artistica, chiedere all’arte di rielaborare l’inatteso e restituirne una versione intellegibile, accettata tra le fila delle esperienze del reale non-eccezionali e ripensata simbolicamente.
Per la sezione teatro quattro proposte tra le più interessanti e puntuali della rassegna, tanto rispetto all’inquadramento originale del tema-traccia proposto, quanto per la qualità drammaturgica e attoriale. La scena teatrale mittelyoungiana sembra essersi concentrata sull’imprevisto come moto reattivo, come evento inaspettato che costringe lo spettatore ad uscire dalla sua confort zone e a riposizionarsi all’interno di uno spazio scenico e vitale riprogrammabile. L’imprevisto diventa allora “occasione” – tanto negativa quando offerta da eventi traumatici, quanto positiva se stimolata dalla stasi dello stato dell’arte – un tema certamente non facile da rielaborare, data la sua vaga natura, ma sapientemente ripensato dagli artisti senza cenni di banalità o disorientamento.
Assenza Sparsa – Pan Domu Teatro
Più che un soggetto e una drammaturgia, Assenza Sparsa è la rarefazione di un ricordo doloroso, la scelta di due giovani artisti, Luca Oldani e Jacopo Bottani – rispettivamente ideatore-attore e drammaturgo – di rielaborare e digerire un lutto assai traumatico del proprio passato proprio legato al teatro, e di restituirlo al teatro stesso come testamento e memoria. Il tragico incidente che causò la morte di un attore giovanissimo nel 2016, per i due ragazzi innanzitutto amico e collega, dà origine a una lunga riflessione sulla vita e sulla morte, ben consapevoli di quanto né l’una né l’altra siano materiali facili con cui interfacciarsi in maniera diretta sul palcoscenico. Grazie a un bando diffuso dal Policlinico Sant’Orsola di Bologna, la compagnia sceglie di concentrarsi sul reparto di rianimazione come set preferenziale della ricerca, unico limbo effettivamente percorribile da chi giace in uno stato di non-vita. L’esperienza di attesa vissuta lì, nei giorni precedenti alla morte dell’amico, si somma all’attesa di natura differente cui è sottoposto il paziente ricoverato.

Costruito su due binari percettivi, lo spettacolo alterna la performance in scena del protagonista in sala d’attesa e le registrazioni audio che trasmettono le interviste, i discorsi intrapresi con esperti medici sul coma, lo stato di quiescenza, la non vita e la non morte. Andrea Oldani si muove benissimo in questo finto-assolo senza interlocutori concreti, galoppa i ritmi scenici di domanda e risposta, agisce e reagisce intrattenendo con gran maestria il flusso di visitatori invisibili al reparto in una lunga condizione di para-stream of consciousness. La scelta di inserire la documentazione sonora, quasi come secondo attore in carne e ossa, rende completa la trasposizione di uno stato di cose non definitivo, riempendo i vuoti, suggerendo ipotesi e proponendo teorie scientifiche e filosofiche da contrapporre al bulimico straparlare del protagonista, affaticato dalla ricerca di un perché e di una inequivocabile quiete.

G.A.S. – Compagnia del Buco
Teatro, circo, campeggio estivo, le tre dimensioni sfumano e si fondono nello spettacolo di clownerie del duo composto da Simone Vaccari e Luca Macca – 20 e 21 anni – dimostrazione indubbia che la performance è innanzitutto azione nello spazio carica di significato, rivolta alla ricerca di un senso artistico anche nelle pratiche più quotidiane. La scelta di cimentarsi e portare avanti il teatro- circo è sicuramente il primo dei pregi della giovanissima compagnia di clown nata in maniera del tutto amatoriale, un genere, quello circense, non solo poco battuto ma adombrato dal pregiudizio per cui le abilità clownesche restano inevitabilmente confinate al tendone o alla festa, incapaci, per la natura del gioco performativo di cui si alimentano, di innervare rapporti drammaturgici completi con il contemporaneo senza scadere nella burla tout court. G.a.s. si basa su un’impresa molto semplice: preparare una tazza di tè caldo in campeggio con gli oggetti a propria disposizione. Ecco, quindi, che il canovaccio minimal offre una base solida per prendere poi le direzioni più stravaganti e pericolose, utilizzare gli oggetti di scena e gli strumenti elettrici in maniera ludica per riqualificarne l’uso – a loro disposizione solo un fornello, una bombola di gas, due cassette e una coperta cerata. In un viaggio di abilità e acrobazie, gaffe e incidenti, il duo mette a servizio di una sceneggiatura flessibile le maestranze del ciclo più classico.

Il passaggio obbligato dalla strada – set privilegiato della Compagnia del Buco – al palco della Chiesa di Santa Maria dei Battuti, non aliena l’orientamento coinvolgente dell’attività circense che pesca tra il pubblico i suoi compagni di sventure. Altro merito indiscutibile è la ricerca sul linguaggio portata avanti dai due artisti, operazione per nulla scontata nell’ambito di uno spettacolo non parlato. Storpiata, corrotta e mescolata, la lingua madre degli attori viene rielaborata in un idioma clownesco che presenta le proprie occorrenze e concordanze, una lingua semi-rigida di cui si impara con facilità a cogliere l’appiglio comunicativo.

17 Selfie dalla fine del mondo – Riccardo Tabilio
Altra operazione fuori dagli schemi nel panorama mittelyoungiano quella scritta da Riccardo Tabilio, una performance audioguidata in cui il pubblico disseminato a piacimento nel cortile della chiesa “sente” gli attori in scena attraverso le cuffie di cui è stato munito all’ingresso. Lo scopo di 17 Selifie alla fine del mondo è quello di ricodificare il rapporto performativo tra pubblico, attori e narrazione silenziando la presenza visiva della compagnia per fare posto al singolo avventore in quanto io-in scena. La performance è un percorso di riflessione attraverso la storia naturale del nostro passato terrestre, il suo presente e il futuro minato dall’incombere dell’emergenza climatica, puntando sullo spettatore in quanto abitante responsabile del pianeta.

Attraverso una serie di tappe-azioni, il pubblico è chiamato a compiere dei passi in vista di soluzioni critiche, anche solo teoriche, per assicurarsi un futuro concreto, ma soprattutto è chiamato a interagire con gli altri poiché l’operazione artistica ha lo scopo di sconfiggere il solipsismo come dimensione di vita e di promuovere la collaborazione, l’ascolto e la progettualità condivisa. La narrazione in audio-guida propone allora una serie di profezie, istantanee, note vocali, una carrellata di “selfie” come documenti di una storia ancora da scrivere ma ipotizzata come catastrofica dato lo stato attuale delle cose. La nota profetica però ha un doppio sguardo, ipotizzare la catastrofe per evitarla e stimolare la possibilità di comporre un album di scenari futuri positivi. Sebbene superficiale in molti punti, la narrazione coinvolge lo spettatore di tutte le età, conducendolo infine in una collettiva festa catartica con tanto di buffet come ultimo e interattivo scenario rituale.

Since my house burned down I now own a better wiew of the rising moon – Musasi Entertainment Company
Seconda proposta mittelyoungiana a integrare teatro e circo, Since my house burned down I now own a better wiew of the rising moon è una butoh-clownerie ispirata a un racconto popolare giapponese in cui un samurai e il demone Tengu vivono un’esistenza votata alla competizione e alla vendetta fino anche a perdere tutto ciò che possiedono. Il titolo suggerisce l’inversione di rotta dell’approccio interpretativo del racconto, invitando a sedersi di fronte alle ceneri del proprio operato e a spostare lo sguardo verso i frutti della terra bruciata. Non una parodia, non una satira, la Musasi Entertainment Company gioca con i linguaggi tradizionali estraendone il potenziale comico, la radice ironica di personaggi e situazione che del Giappone rivelano inconsuete verità. L’adozione dell’estetica del butoh – i corpi semi-nudi e colorati di bianco – così come le tecniche performative del movimento – l’alternanza di momenti lenti e altri iper-frenetici – traslano l’immagine del clown occidentale nella sua versione orientale. La figura del circense ragiona esteticamente per abbondanza: si allungano capelli, baffi, le unghie dei piedi e delle mani e le canne che adoperano, smantellando l’equilibrio estetico del samurai, delle geishe in quanto miti ma senza distruggerli, rendendoli piuttosto svecchiati e potenti nella loro nuova capacità auto-narrativa.

Di situazione in situazione, i due protagonisti, prima samurai e demone, poi geishe, poi senzatetto, si scontrano comicamente in gag parossistiche magistralmente riuscite, tre atti intervallati dalle melodie del koto e dal battito delle geta suonati dal vivo. La drammaturgia è tutta basata sul situazionismo come orizzonte narrativo, scritta come mappa spoglia su cui posizionare queste figure quasi rapite al proprio passato e catapultate in un qui ed ora incomprensibile. La chiave di lettura di tutta la performance è infatti l’invito a leggere il tragico, la disgrazia inaspettata, l’imprevisto come fonte di scoperta e non di perdita, arrangiando soluzioni spesso disfunzionali ma benefiche per sopravvivere allo sfacelo – burned house – o danzando sulla sventura riqualificando la sventura stessa – a better wiew on the rising moon.
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[…] I due clown neo-ventunenni Simone Vaccari e Luca Macca sono gli enfants prodiges protagonisti di G.A.S., uno spettacolo post-circense che adopera con lucida ironia la banalità del reale per trasformarla in materiale drammaturgico e insieme ludico. Una bombola e un fornello, due cassette e un telo cerato sono gli oggetti di scena riqualificati nel loro uso: la preparazione del tè diventa canovaccio per un’avventura collettiva in cui “l’attuale” come evento imprevisto viene capovolto nella dimensione festiva del circo. Il compromesso tra sceneggiatura e improvvisazione, così come la creazione ex novo di un idioma clownesco ben congegnato, fanno di G.A.S. il pioniere nel “Nuovo Circo”, un manifesto di riabilitazione delle performance circensi, capaci di innervare rapporti drammaturgici completi con il contemporaneo senza scadere nella burla tout court. Leggi l’articolo completo di Sandra Innamorato […]