
Le Rane: tornare al teatro
Confrontarsi con Le Rane di Aristofane oggi, cercando di mantenere fede al testo senza cedere a qualsivoglia “rievocazione storica”, può essere considerata a buon diritto una sfida tanto stimolante quanto ardua: la materia sociale e metateatrale dell’opera, infatti, per quanto sub specie aeternitatis dialoghi e ravvivi il discorso contemporaneo, pone tuttavia traduttori, adattatori e registi di fronte a una miriade di scelte tecniche, drammaturgiche, artistiche e produttive che possono rappresentare un terreno di lavoro insidioso quando non scivoloso, sia affrontate singolarmente che nella loro complessità. Verrebbe anzi da ribadire una premessa simile rilanciandola: affinché il testo aristofaneo possa veramente affrontare una messa in relazione onesta con la realtà che lo circonda oggi, esso non potrà prescindere in nessun caso da un confronto serrato con quest’ultima, attraverso un’immersione integrale e priva di compromessi che cerchi di trasformare le inevitabili complicazioni dell’adattamento nei principali punti di forza del prodotto finale.

È dunque da qui che vale la pena di partire per avvicinarsi ad un caso specifico che ha visto, a questo punto non per caso, il coinvolgimento di: un centro di produzione, Elsinor, tra i più interessanti e attivi d’Italia; del regista e attore Marco Cacciola, con un occhio ben attento alla dimensione sociale e politica del teatro; di un gruppo di attori molto giovani. Giorgia Favoti, Matteo Ippolito, Lucia Limonta, Claudia Marsicano, Francesco Rina; di due traduttrici, Martina Treu e Maddalena Giovannelli, che hanno svolto il loro lavoro in confronto costante con la produzione e con studenti dell’Università IULM e dell’Università Statale di Milano; di uno scenografo, Federico Biancalani, sempre focalizzato su creazioni sceniche che uniscano soluzioni artigianali a messaggi contemporanei; di un gruppo di cittadini, ogni sera diverso, che potesse vestire i panni del coro incarnando simbolicamente e corporalmente la tradizione greca attraverso una presa immanente della scena.
Da sottolineare che l’intera genesi dell’opera risale al 2020 e nasce dalla messa in atto di una serie di laboratori con il fine di coinvolgere tutte le persone che attorno al progetto dovevano confrontarsi, in un scambio continuo di punti di vista e soluzioni, a partire dal coinvolgimento di alcuni cittadini su base volontaria: per quanto possa risultare didascalico evidenziare quanto gli ultimi due anni di non-teatro possano aver influito sulle scelte finali, è interessante notare invece quanto la scelta di produrre proprio Le Rane sia avvenuta prima del periodo pandemico, in una sorta di premonizione inconsapevole degli eventi futuri che deve aver influenzato tutti i protagonisti. Quale miglior testo infatti per portare avanti un discorso sull’importanza della poesia scenica e sulla sua centralità nella sfera pubblica, proprio al ridosso della riapertura sofferta per i luoghi di spettacolo italiani se non quello in cui Dioniso, dio del teatro, scende agli inferi per riportare in vita il defunto Euripide, suo drammaturgo preferito (e quindi il teatro stesso)? Inoltre, come fanno notare giustamente le traduttrici attraverso un evidente parallelismo, l’opera aristofanea si inserisce in un periodo terribile per la storia ateniese: nel pieno della propria decadenza morale e politica il messaggio di Aristofane incita a ritrovarsi attorno al rito e al riso, in quelle esperienze cioè che sole (insieme alla tragedia) possono salvare la società dalla catastrofe.

Come si sarà già intuito, Le Rane firmate da Cacciola fanno proprie più o meno volontariamente (ma non è questo il punto), senz’altro ammirevolmente e coerentemente, tutte le istanze suddette, arrivando in scena con indosso un notevole carico da gestire. Se appare evidente quanto il lavoro pluriennale abbia comportato una vera e propria gestazione al dettaglio di ogni singola scelta scenica, il risultato complessivo rischia forse a tratti di sfaldarsi, scricchiolando regolarmente (ma mai incrinandosi, si badi) sotto il peso di tutte le direzioni sopra esposte: in altre parole il processo c’è, evidentissimo, e si vede e apprezza parecchio, ma rischia esso stesso di rubare troppo spazio al risultato finale, il quale ne esce un poco infiacchito rispetto al suo stesso (senz’altro immaginabile) potenziale. Grande prova attoriale del trio Marsicano-Ippolito-Limonta, sorprendente la scenografia di Federico Biancalani (e non ci si abitua mai alle sue fantasmagoriche sorprese), affascinante e riuscita l’incursione testuale delle vite private dei cittadini sulla scena. Quello che sembrerebbe parzialmente sospeso però pare nei fatti essere uno sviluppo ultimo, che punti ad asciugare una drammaturgia intrisa fino allo sgocciolio di elementi vitali, assorbendoli in un rito (in)definitivamente collettivo e quindi autenticamente catartico.
Interessante, a suo modo stravolgente e più che mai attuale quindi il discorso registico che pone al centro numerose dicotomie al fine di volerle superare con e davanti al pubblico – il bianco e il nero, la luce e l’ombra, i fiumi di parole e il silenzio, gli attori professionisti e quelli amatoriali, il proscenio e la scena, la musica e il silenzio, il moto estremo e la stasi completa, il serio e il faceto, ecc… – ma troppo spesso, paradossalmente, quello che avviene sembra un rito riservato ai pochi “selezionati” o “iniziati” (per rimanere sul testo): ecco quindi che, pur volendo stimolare la partecipazione del pubblico attraverso l’infiltrazione di parte del cast in platea, la quale in determinati momenti cerca di guidare gli spettatori verso un coinvolgimento fisico diretto, la sensazione che si prova è, spesso, quella di essere stati “sostituiti” in un simile compito proprio da coloro i quali, improvvisamente, si rivelano “incaricati” di portarlo avanti, gli unici a poter salire non a caso (per forza di cose, ci mancherebbe) sul palco. Un simile risultato però, va detto, ha il vantaggio di servire da pretesto, da cartina al tornasole per il pubblico, che potrà (e dovrà) comunque riflettere su di un (mancato, rifiutato, o impossibilitato) coinvolgimento maggiore: questo aspetto finisce col rivelarsi un pregio in più parti, evidenziando il particolare lavoro svolto. Non riesco a sentirmi parte del rito che sta accadendo ora, qui e anche per me. Perché? Uscire dal teatro con questa domanda più che salutare fa sempre un certo effetto, specialmente dopo questi due anni.
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