
Finì che era cominciata – Della versione di Luisa Viglietti
Carmelo Bene muore a Roma diciannove anni fa oggi. Otto anni prima, una calda estate del 1994, conosce l’ultima compagna della sua vita, Luisa Viglietti, la prima e forse l’unica con cui sia mai riuscito a lasciarsi andare. A volte. Si potrebbe partire e contemporaneamente chiudere qui il discorso su Cominciò che era finita (edizioni dell’asino, 2020), bio-esercizio di analisi condotto da Viglietti nei confronti di sé stessa e della propria storia, e degli intrecci di questa con il Carmelo privato e sconosciuto ai più, quel Carmelo il quale, nei numerosi aneddoti inediti che la narrazione propone, si rivela allo stesso tempo tanto umano e sofferente quanto eccessivo, seppur mai esagerato né tantomeno debole. Un Carmelo insomma familiare, specialmente per tutti coloro i quali non hanno mai creduto alla volontaria e programmata invenzione o caricaturale ostentazione del personaggio “carmelobene”, che pur certamente è esistito, ma che non rientra in prima battuta nella materia del libro, se non a latere, di riflesso, e in davvero poche situazioni che sono funzionali all’autrice al fine di far emergere, per contrasto, Carmelo.

L’altra co-protagonista è però senz’altro lei, Luisa, quando non l’unica protagonista di questa epopea beniana, ed è più che giusto che sia così, se di vita con Carmelo Bene o di coppia si parlerà: personaggio storico messo fin troppo in ombra nel dopocarmelo dai tanti processi sostenuti per preservare proprio l’eredità di Carmelo Bene, Luisa Viglietti è più di una costumista ennesima presenza femminile nella vita di Bene. La narrazione in costante prima persona lo evidenzia abbastanza, analizzando la propria esistenza fuori e dentro quella di Carmelo e non cadendo nella faciloneria di porre (il) Bene al di sopra di tutto: quanti commenti sinceramente ed affettuosamente critici nei confronti del proprio compagno, quanti onesti meriti personali degli ultimi anni rivendicati con doverosa fierezza, quanta meravigliosa e meravigliosamente evidenziata capacità di cambiare in piccole, gigantesche cose il monolite Carmelo Bene, o meglio (e dev’essere stato sicuramente ancor più arduo come compito) l’uomo Carmelo.
Non sarà stato di certo semplice per Luisa Viglietti scrivere questo libro, così come decidere di stare accanto a Carmelo, un uomo che non conosceva grosse mediazioni tra sé e il modo con cui chiunque altro si approcciava al mondo. E allora ecco chili e chili di cibo tutto uguale, ore e ore notturne di TV, spese folli per arredamenti kitsch, routine del tutto rovesciate, ma anche (e non sorprende ma forse un poco sì) spettacoli dallo sforzo disumano cambiati di continuo e performàti senza mai provare la propria parte (eppur, ovviamente, portati a casa con tutti gli onori), volumi enciclopedici dettati e così pubblicati, amministrazione diretta di tutti (ma proprio tutti) gli aspetti riguardanti il proprio lavoro, organizzazione preventiva maniacale della propria opera e dei propri beni in vista del post mortem.

È un Carmelo Bene che, al solito, non smette di stupirci e, contemporaneamente, ci sembra quasi di poter prevedere via via che si procede nella lettura: in questo senso il merito di Viglietti è allora proprio quello di ospitarci nella grande e magica casa otrantina di vent’anni fa, di portarci in viaggio e farci sedere in mezzo tra lei e Carmelo, di renderci testimoni involontari anche della vita di lei e di lui prima che si conoscessero. Si va a restituire in questo modo una complessità tra le tante alla base del loro rapporto la quale, proprio perché restituita e non sviscerata, potrà essere trattata a suo modo dal lettore stesso, il quale si approccerà per forza di cose al libro con un suo proprio umore (se non una sua propria idea) su Bene, che verrà semplicemente – si fa per dire, sfida più che ardua se pensiamo a quanto materiale scrittorio, video e audio sia stato prodotto da Bene o su Bene – elevato a potenza, moltiplicato per se stesso e, quindi, semplificato nel risultato finale.

Semplificare il Bene uomo, il Bene che altri non è se non Carmelo (per Viglietti e, finalmente, anche per il lettore) non può passare in secondo piano: è quella sensazione difficile da descrivere che si prova ancora oggi di fronte a qualunque materiale beniano, di incredula credulità e di fervente incredulità al tempo stesso, applicabile, finalmente, a quel che ci viene restituito del Carmelo privato. Cosa porterebbe, quindi, quello stesso atteggiamento applicato a una narrazione più intima? Anzitutto la riprova dell’autenticità di ogni espressione artistico-performativo-politico-sociale di Carmelo Bene. In secondo luogo la certezza di aver avuto all’interno della propria storia artistica recente un essere umano e non un alieno, un artista da riscoprire molto più che come “genio” idolatrato e pietrificato (chissà quanto avrebbe da ridire Carmelo oggi del modo di affrontare Carmelo oggi) o, peggio, burocraticamente secretato. Infine, la sensazione che dopo anni e anni di sofferenze personali per Carmelo, forse, era cominciata con Luisa Viglietti una stagione artistica oltre che personale che avrebbe potuto regalarci diverse sorprese da più punti di vista. E Carmelo solo sa di che genere.
Il libro è la Chanson de Carmel che mancava, una materia che restituisce tutta l’umanità del personaggio principale attraverso formule, temi e vicende di cui già sentiamo la mancanza, e che parla al lato più classico del nostro assurdo contemporaneo, parlando così in un certo qual modo a tutti, da qualunque lato la si avvicini. E di questo, a Luisa Viglietti, non possiamo che essere grati.
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