
Lezioni di piano – Musica nel silenzio
Tutti conoscono, Lezioni di piano. Tutti hanno visto, Lezioni di piano. Nessuno conosce, Lezioni di piano. In pochi hanno visto, Lezioni di piano. In mancanza di alternative, spesso ci si accontenta delle due o tre verità preconfezionate dai feticisti della versione ufficiale. Tutti sanno che Lezioni di piano è la prima volta che una donna, Jane Campion, nel 1993, vince (ex aequo con Addio mia concubina di Chen Kaige) la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Meno noto è che serviranno 28 anni per il bis, pandemico tra l’altro. Certe timidezze per essere superate hanno davvero bisogno della fine del mondo. È, infatti, il 2021 e il film si chiama Titane; lei è Julia Ducourneau, ma questa è un’altra storia. Forse no, magari è sempre questione di donne che parlano lingue fraintese dal rumore maschile.
Molti, non tutti, sanno che per il film Jane Campion vince anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, riconoscimento meritato e ingannevole, che ne trascura colpevolmente l’ambiguità. Tutti amano Lezioni di piano perché è un film di ieri, mentre oggi lo sotterrerebbero. Novecentesco melodramma in costume, per cui non usa più commuoversi. Niente di replicabile nell’estetica e nella narrazione, il funerale della serialità. Il mare in tempesta, quei tramonti incendiati, suggestioni da sala; d’altronde al cinema non ci va più nessuno. I profeti della rappresentazione e dell’inclusività troverebbero qualcosa da ridire, tutto sommato a ragione. Con tutta la buona volontà e l’afflato femminista e l’emancipazione e tutto il resto: Jane Campion, dove diavolo hai messo i Maori?

Ai margini, per quanto le verità universali (e politiche) della storia alludano anche a questo, lo sfruttamento e la marginalizzazione di oppressi in cerca di una voce. La poesia del film, vista da qui, zoppica un po’. La polvere di stelle seminata da un capolavoro è fatta di briciole di grandezza e contraddizioni. Il bello e il giusto, di Lezioni di piano, superano di gran lunga le cose che non vanno, e questo dovrebbe bastarci. Nuova Zelanda, metà dell’Ottocento. Ada McGrath (Holly Hunter) vedova scozzese, muta da un’eternità, da quando era bambina e nessuno sa perché, sbarca sulle coste di un paese agli antipodi di tutto per sposare un uomo che non conosce e non amerà mai, Alistair Stewart (Sam Neill). Ci arriva con una bambina di sei anni e un pianoforte, le due cose cui tiene di più. Non necessariamente in quest’ordine.
La piccola si chiama Flora (Anna Paquin) ed ha più o meno l’età della mamma all’epoca in cui smise di parlare. Resta l’unico anello di congiunzione di Ada con la realtà esteriore, dal momento che Alistair, ottuso materialista, ha cura solo di forzare la civiltà sulla terra vergine neozelandese, senza dare ascolto a vie diverse da quelle suggerite da un’algida razionalità. Alistair non fa i salti di gioia quando scopre che Ada porta con sé un pianoforte, non vuole averci niente a che fare. Gli risolve il problema George Baines (Harvey Keitel), uomo di mezzo, attraversato in egual misura da imperialismo e cultura indigena. Riscatta il pianoforte vendendo parte delle sue terre. Invaghito di Ada, non sa cos’altro fare per tenersela vicina.
Quintessenza poetica di Jane Campion, conservata nell’ambra a beneficio dei posteri: una donna sola, in lotta contro un mondo di maschi, ostile. L’emancipazione è un fatto intimo. Ada è lontana da casa, sposata a un uomo che non può darle niente, per di più senza pianoforte. Baines è disposto a restituirglielo, ma al prezzo di un (non così) innocente ricatto. Un tasto alla volta, in cambio del permesso di sederle accanto mentre suona. E di qualche altra cosa. Ada accetta di malavoglia, Baines si rende conto della porcheria e le rende lo strumento. Senza condizioni. E a questo punto, miracolosamente, la donna torna da lui, stavolta di sua volontà. I più ingenui diranno che è nato un amore. In realtà le cose sono più complesse. Jane Campion non consente a Lezioni di piano di galleggiare inerte sulle superficie.

Ada nel silenzio riscrive i codici del suo rapporto con le cose e le persone. All’autrice neozelandese interessa soprattutto questo, la definizione di un’esperienza femminile autonoma e padrona di sé. Per arrivarci, occorre la forza terrorista di un linguaggio capace di scardinare le convenzioni, il già visto e il già fatto. Ada costruisce il suo mondo sulla musica e sul rifiuto della lingua degli uomini, la lingua dei pregiudizi. Statica, borghese e senza immaginazione, su misura di Alistair e il suo clan di colonizzatori benpensanti. Lezioni di piano colloca la Nuova Zelanda sulla mappa del cinema prestigioso – per quanto la paternità del film sia oggetto di una sofferta condivisione con l’Australia – fa la fortuna di buona parte del suo cast (Oscar a Holly Hunter e a un’allora giovanissima Anna Paquin), si preoccupa in egual misura della forma e della sostanza.
Ed è un soggetto originale, e insieme un adattamento. Si nutre di influenze, di sorgenti, suggestioni, biografie esemplari. Jane Campion come solo i migliori: ruba, non prende in prestito, ruba, la poesia melodrammatica e malata di Cime tempestose, monumento alla torbida fluidità delle passioni. Accenna all’esplorazione di un’intimità ribelle tornando ancora una volta alla biografia dell’amata Janet Frame. Scrittrice neozelandese, referente ideale di Ada nella tensione costante di una femminilità impegnata a ridefinirsi in rapporto e in conflitto con un provincialismo di chiaro stampo patriarcale. La sua vita era servita da sfondo e tavolozza per il film precedente, che si chiamava Un angelo alla mia tavola (1990).

Non finisce qui. Ci sarebbero riferimenti secondo molti più stringenti, su tutti il romanzo della neozelandese Jane Mander, The story of a New Zealand river (1920). Più che giusto, tuttavia, Emily Brontë e Janet Frame reclamano una sorta di primato morale sull’architettura del film, la seconda in particolare. Janet Frame, finita in manicomio per un po’, la sua partita con il mondo di fuori è davvero in chiaroscuro. Jane Campion immagina un finale diverso per Ada. Lascia Alistair. Se ne va con Baines e la bambina e il pianoforte. In realtà, continuando a sognare una via di fuga; per questo si lega al pianoforte che sprofonda nell’oceano, per farsi trascinare giù. Cambia idea, ma solo all’ultimo minuto. Sceglie la vita con Baines (la realtà), tornando spesso con il pensiero al pianoforte sul fondo del mare, promessa di una libertà estrema e terribile (il sogno).
Essere contemporaneamente sulla terra e nell’abisso. Amare un uomo, senza annullarsi nel sentimento. La trasgressione definitiva della protagonista, ha (per noi) il sapore beffardo e contraddittorio di un compromesso, di quelli buoni e giusti. La forza e la maturità di Lezioni di Piano, il senso dell’arte di Jane Campion, è di rovesciare la vita (e il cinema) accettandone le regole. Spazzandole via comunque. Ada è libera, il cinema che la contiene è libero. E noi?
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