
“Moon Knight” Episodio 6 – Finale di partita
Attenzione: la recensione contiene spoiler dell’episodio 6 | In perfetto accordo con quanto sottolineato da Luca Carotenuto nella sua recensione del primo episodio di Moon Knight, serie Marvel arrivata con il capitolo 6 alla sua conclusione – si spera momentanea, in vista di un auspicabile rilancio -, ci troviamo ormai di fronte a un modo di intendere la serialità da parte dei Marvel Studios piuttosto strutturata e riconoscibile: il finale, in qualunque modo sia andata la stagione, deve portare con sé la coda delle trame aperte (con possibile rilancio), qualche grande combattimento adrenalinico e pluridimensionale e, soprattutto, una sorpresa. Moon Knight non fa assolutamente eccezione e, dopo un viaggio di due episodi nella profondità del personaggio dietro la maschera (che vediamo comunque indossata troppo poco), il finale ci riporta “a casa”, donandoci uno squisito conflitto materiale e fisico nel risolvere le tensioni aperte nei diversi livelli di realtà della serie.

Sulla chiusura delle trame c’è poco da dire. Evidentemente il punto di Moon Knight non è mai stato raccontare il tentativo un po’ démodé da parte di un cattivo rancoroso di evocare una divinità manichea con coerenza e linearità, bensì di aprire finestre narrative familiari allo spettatore, che resta perfettamente in grado di riempirne i buchi grazie a frame intertestuali esplicitamente richiamati – ad esempio, attraverso il pastiche del film avventuroso in cui nasce Steven Grant – e di metterle in parallelo, in controluce l’una con l’altra, senza che si ponga per scelta una base di realtà da cui distinguere l’immaginazione. Moon Knight è nella sua totalità una polifonia di racconti postmoderni, un dialogo intertestuale dell’immaginario audiovisivo condiviso da un’intera generazione di spettatori; e in questo è un caos ordinato come può esserlo il campo da gioco di un bambino con le proprie action figure.

Tutto questo trova una forma d’ordine solo alla sua conclusione, in un episodio finale che è stratificazione di conflitto su più dimensioni: abbiamo sullo sfondo uno scontro tra divinità, surreali e sintetiche come è giusto che siano, e abbiamo in primo piano il fondamentale scontro col nemico, stratagemma diegetico per mettere in mostra una coreografia corale di fisicità in dialogo, con al suo centro l’equilibrio tra Moon Knight e Mr. Knight, finalmente in grado di restituirci quell’estetica che il lettore di fumetti aspettava e che lo spettatore attento ormai sa essere in arrivo. Negli stili di combattimento di Moon Knight – studiatissimi, come sempre accade nei Marvel Studios – riconosciamo la brutalità e l’eleganza insieme di Marc e Steve, ritrovando l’atmosfera molto carnale dell’immaginario del personaggio.

Ma il vero scontro, quello decisivo, quello mortale e verosimilmente brutale resta fuori dallo schermo. Uno dei nodi critici di Moon Knight per molti commentatori è l’assenza di violenza, eppure non possiamo dire che i nemici non facciano una brutta fine. La scelta della (non) rappresentazione della violenza estrema, in parte giocata sul costante mistero del terzo escluso dalle personalità di Marc, non è legata allo scansare critiche di eccesso – la Marvel sa essere disturbante quando serve -, bensì al creare un sistema di violenza immaginata, ricostruita e intimamente personale per ogni spettatore, in perfetto accordo con quei frame richiamati prima. Le azioni del misterioso Jake Lockley – per i lettori non a caso un tassista – scavano nella memoria degli spettatori cinematografici che riempiono quei vuoti con De Niro, Pacino, ecc., lasciando una liberta di ricostruzione della violenza potenzialmente infinita.

Ancora, a forza di suonare ridondanti, va sottolineata la bravura eccezionale di Oscar Isaac, attore polifonico, sfaccettato, in grado di mutare sé stesso pescando attraverso la propria carriera, corpo attoriale totalizzante, tanto da rischiare di far leggere Moon Knight come una serie fuoritema, più ancorata all’uomo che al supereroe. Nel finale di stagione la tripartizione di Isaac richiamata dalle grafiche che circondano il prodotto deflagra in una trasformazione definitiva, irreversibile, con conseguenze tutte da indagare. A ciò si aggiunge il brillante talento di May Calamawy, trasformata a sorpresa in una sorta di Wonder Woman misurata, ottimamente inserita nel contesto narrativo ed esteticamente integrata nel racconto, a riflettere e rimarcare il difficile racconto del rapporto divinità-avatar.

Arrivati alla conclusione di una miniserie dedicata a un personaggio pressoché marginale nei fumetti e decisamente oscuro per il grande pubblico, è opportuno porre l’attenzione su una tendenza sempre più radicale nel lavoro dei Marvel Studios, evidente quando si riverbera attraverso materiale narrativo di nicchia; ciò che è nato come un gioco di caccia al tesoro a elementi quasi insignificanti del prodotto per richiamare l’attenzione (e i discorsi) dei lettori di fumetti, sta via via diventando una vera e propria chiave di lettura dei prodotti stessi, ampliandone il potenziale di senso, aprendo vie interpretative tutte coerenti, tutti effettive e valide nel momento in cui l’universo narrativo si amplia e lascia necessariamente spazi vuoti. I rimandi cross-mediali diventano vere e proprie mappe possibili per tenere il punto dell’immaginario in costruzione, permeabile al dialogo con le competenze spettatoriali.

Moon Knight è una miniserie e come tale è coesa e “chiusa”, ma il personaggio di Moon Knight spinge i margini del racconto occasionale per vivere appieno l’Universo Cinematografico Marvel. L’evoluzione stilistica e linguistica del MCU ci promette uno spazio per le esigenze narrative di Marc Spector e del suo immaginario, al di fuori della pur piccola parentesi vista nella miniserie, in grado di dialogare con altri personaggi sempre più centrali negli interessi della Marvel. La speranza è di vedere Moon Kinght finalmente proteggere i viaggiatori della notte, con ogni mezzo possibile.
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