
L’ultimo animale: nei meandri di una mente
Un buco nero di forma triangolare su fondale bianco, da cui escono per entrare in scena (e viceversa) due procioni e un bruco. E due coinquiline: una interagisce con gli animali, l’altra no. No, non si tratta di Teatro Ragazzi se a qualcuno è venuto in mente – e anche lo fosse stato la potenza e la coerenza dell’opera non ne avrebbero risentito di certo. Caterina Filograno torna alla drammaturgia e approda alla regia con L’ultimo animale, allestimento di un suo stesso testo scritto qualche anno fa e addirittura riadattato per l’occasione dall’attrice barese, che abbiamo già conosciuto in qualità di autrice per Potrei amarvi tutti, primo lavoro de La Tacchineria.

Il cast, non a caso tutto al femminile e coralmente di livello (Francesca Porrini, Alessia Spinelli, Emilia Tiburzi, Anahì Traversi, Carlotta Viscovo), attraverso i capitoli dell’opera scandisce con uno stile volutamente sopra le righe un viaggio tra l’onirico e lo psichedelico dentro una “stanza tutta per sé”: un non-luogo che solo il teatro è capace di creare davanti e insieme al pubblico che altro non sembrerebbe se non la mente-donna, con le sue “personagge”, le sue opposte caratteristiche complementari che restituiscono un quadro confuso e quindi completo e coerente dei meandri di una personalità.
La storia, si badi, attraverso la forza dell’autentica semplicità potrebbe essere letta anche solo in senso rappresentativo: Cristi è una donna che vive in affitto a casa della sua migliore amica Giudi; la convivenza a lungo termine, complice un buco nella parete della camera affittata mai riparato, è diventata pesante per Cristi, che ormai da tempo riesce paradossalmente ad avere un rapporto migliore con gli animali che vivono il buco piuttosto che con l’amica o con il mondo esterno. Una serie di vicissitudini metteranno i procioni alle strette e Cristi arriverà a compiere azioni nei confronti di Giudi ben peggiori di quanto le premesse lascino immaginare.
Tragedia intima ma anche racconto da realismo magico, L’ultimo animale agisce su piani paralleli flebilmente collegati tra loro dento l’interiorità di ognuno: flebili e quindi quasi invisibili, ma proprio per questo potentissimi e psicologicamente impattanti. Quasi persi nella surrealtà a tratti grottesca della pièce si finisce per assistere pressoché in trance, in contemporanea, al rito archetipico che abbiamo di fronte e all’autoanalisi inconscia che esso fa scaturire al nostro interno.

Filograno dimostra coraggio e intraprendenza da vendere nello spalancarci le porte del – forse – proprio sé: quale che sia la verità in merito (non è rilevante), quest’operazione dai forti sapori anglosassoni e mitteleuropei permette, in ogni caso, un’immersione propriocettiva nient’affatto intellettualoide o cervellotica, simultaneamente collettiva e individuale – eccolo il Teatro, che agisce con delicata prepotenza. Esperienza tanto particolare quanto dirompente, fedelmente rappresentativa della contemporaneità: da provare.
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