
Il ritorno del re – “Il viaggio non finisce qui”
Con un girato totale di oltre 6 milioni di metri di pellicola, 2400 membri della troupe e più di 20mila comparse la Trilogia del Signore degli Anelli è senza dubbio la più imponente saga epica mai impressa sulla celluloide.
L’ultimo capitolo di una produzione così mastodontica era un terreno pericoloso: si dovevano non solo soddisfare le aspettative dei nuovi appassionati, assuefatti al crescendo di meraviglie dei precedenti film, ma, soprattutto, non si dovevano deludere gli accoliti del culto tolkeniano.
Il rischio poté essere eguagliato soltanto dal successo: solamente il Ritorno del Re, epilogo straripante e monumentale del viaggio iniziato quasi dieci anni prima, superò il miliardo al botteghino, diventando anche il primo fantasy nella storia del cinema a vincere l’Oscar come Miglior Film nel 2004.
«It’s a clean sweep! – fa piazza pulita!». Così Steven Spielberg annunciò la vittoria dell’ennesimo e più ambito premio di Hollywood: la squadra di Jackson trionfò in tutte le 11 categorie in cui era stata nominata, sancendo definitivamente lo sdoganamento artistico ed economico di un intero genere.
Se in chi scrive è ancora vivo il ricordo della prima visione de Il ritorno del Re, puro distillato di terrore per le ragnatele di Shelob e le bestiali orde di orchi, dopo quasi vent’anni – e innumerevoli rewatch – l’impatto della visione rimane irriducibilmente stravolgente.
Che siano le migliaia di comparse digitali, i 250 cavalli veri usati per la carica dei cavalieri di Rohan nei Campi del Pelennor, o le evoluzioni di Legolas sul mastodontico olifante, le sequenze d’azione e le battaglie lasciano ancora senza fiato, nonostante il progresso nel campo degli effetti speciali: basti pensare che la sola fase di post-produzione del film durò due anni e terminò appena un mese prima della distribuzione nelle sale.
Ma, oltre il confezionamento, seppur imponente e affascinante, di un prodotto, ciò di cui davvero siamo ancora grati a Peter Jackson è di aver saputo – nonostante alcune divergenze del film dal romanzo – restituire la mitologia e la metafisica di Tolkien nei suoi significati più profondi, spingendoci ad amare la Terra di Mezzo in maniera essenziale, rendendola inevitabilmente parte del nostro immaginario.

La straordinaria potenza scenica delle impressionanti ricostruzioni plastiche delle città – come la candida Minas Tirith – e gli effetti speciali di tradizione prostetica e miniaturistica si incontrano e mescolano con i prodigi della computer animation e della grafica digitale, amalgamandosi perfettamente allo spleen poetico del film, come invece non è stato per Lo hobbit.
«Il sole ormai non sorge più» afferma disilluso Sam all’inizio del film.
La luce – le nubi nere oscurano un cielo spezzato da forti contrasti cromatici – e i paesaggi – grigie e brulle distese di nulla – rimandano alla pittura simbolista di Arnold Böcklin, facendo affiorare in superficie uno strisciante pessimismo di fondo, prepotente nel romanzo, che rischiava di andar perduto in un prodotto mainstream di questa portata.
Sauron vuole annientare tutto quello che ancora ha un legame con la creazione, tutti coloro che, attraverso la propria libertà, possono coltivare il bene nella propria vita: la policromia si dirada, lasciando spazio al nero strisciare della morte, e alla rossa ferocia distruttrice di Mordor, trascinando lo spettatore in un’ossessiva e desolante marcia funebre.
Tuttavia, ad unire chi ha cominciato insieme questa mirabile avventura è la speranza. Anche dove sembra non sia rimasto altro che dolore, la speranza chiama a raccolta – come nella scena da brividi dei fuochi di Amon Dîn – i popoli liberi a difendere Gondor dall’oscurità. La speranza sopravvive persino sulle aspre pendici del Monte Fato dove Sam e Frodo, stremati dalla fatica e dal peso dell’Anello, trovano la forza per andare avanti nella loro impresa nella visione dei colori del cielo, oltre la coltre di nubi nere, e nella dolcezza della nostalgia per la verdeggiante Contea.
Nel terzo atto, poi, le protagoniste femminili della saga diventano emblemi di messaggi tanto universali quanto umani, opponendosi all’immutabile Destino.
«E’ solo di un’ombra e un pensiero che sei innamorata»: Aragorn spezza le catene dell’illusione d’amore di Èowyn, finalmente libera di scrivere la propria storia.
Arwen, rinunciando all’immortalità per coronare il suo sogno d’amore, sceglie di esistere. Sceglie la mortalità, e non la morte: quello dell’Elfa è un elogio della mortalità come fonte valoriale del nostro essere umani.
Aragorn conclude la ricerca della propria identità: ritrovando fiducia in sé stesso, può diventare un vero Re. I fan più accaniti de Il Signore degli Anelli sono sicuramente a conoscenza del fatto che il discorso di Aragorn, dinanzi al Cancello Nero di Mordor prima della battaglia contro l’esercito di Sauron, in realtà, non è presente nell’opera di Tolkien: la pellicola – e la Trilogia – è rimasta nel cuore degli spettatori anche per i suoi straordinari dialoghi e momenti epici, commoventi, incoraggianti.
L’incoronazione dell’Erede di Isildur è simbolicamente condivisa con gli Hobbit: gli Uomini, grandi eroi statuari in armatura, si inchinano nel cortile candido di Minas Tirith, davanti al loro coraggio.
Lo spirito di sacrificio è ciò che rende la Compagnia davvero unita, sebbene i piani della narrazione rimangano, fino alla fine, molteplici: non sono né orgoglio, né forza, né ars pugnandi le doti necessarie per salvare la Terra Di Mezzo, ma umiltà, altruismo e pietas.
Dalla quotidiana semplicità di Hobbiville all’oscenità della guerra, dall’ingenuità fanciullesca alla corruzione determinata dall’Anello, il viaggio di Frodo è una metafora formativa ricca di simboli – abilmente celati da Tolkien e Jackson grazie ai personaggi secondari – che culmina ne Il Ritorno del Re.
Il film, infatti, è aperto e chiuso dagli Hobbit, razza umile e goffa, ma che più di elfi, istari, nani e uomini ha avuto un ruolo chiave nella storia della Terra di Mezzo, la cui sorte è lasciata, da Tolkien, nelle mani dei piccoli mezzuomini, eroi tanto improbabili quando contrastanti con la tipica narrazione epica.

Il Signore degli Anelli, fin dal principio, traccia un filo narrativo che si dispiega in maniera imprevedibile e profonda, fino a congiungere l’identità di Frodo alla sua missione, vitale per la sopravvivenza della Terra di Mezzo.
Seguendo il proprio Destino finché il Caso non prevale, l’Anello di Sauron si ritrova casualmente tra le proprietà dell’hobbit Bilbo, che lo custodisce per cinquant’anni, per poi donarlo al nipote, investendolo di una missione terribile e oscura, al di là delle sue umili possibilità.
Il potere, inteso nell’opera esclusivamente come possesso, sia da Sauron, la cui forza viene meno con la distruzione dell’Unico, sia da chi ha avuto a che fare con esso, convive con il suo stesso contrario, ovvero la soggiogazione: il desiderio di dominare l’Anello porta ed esserne dominati.
Proprio nella sequenza della distruzione dell’Anello il regista neozelandese inserisce un’annotazione personale, sottolineando la discrasia tra sete di possesso e capacità di controllo: se nel romanzo la caduta di Gollum nella bocca del Monte Fato è causata da un maldestro balletto di gioia, nel film questo avviene in seguito alla lotta con Frodo, entrambi dominati dall’entropica ossessione per l’Unico.
Se il potere dell’Anello non divora del tutto la bontà del Portatore è solo perché tra l’oggetto e l’Hobbit si frappone Sam, sempre fedele, anche quando l’inganno di Gollum, tanto antitesi quanto specchio di Frodo, lo aveva costretto a ritirarsi. Se la missione viene portata a termine, è per pura casualità.
La storia dell’Anello cela un messaggio tanto attuale quanto scevro di qualsiasi romanticismo: l’Universo è governato dal Caso, l’ordine soccombe al Caos. E non c’è purezza, coraggio o forza in grado di controllare l’infinita potenzialità della vita.
Sam, emblema della lealtà, è l’unico Portatore a non essere corrotto dal potere dell’Anello: nel film, dopo aver creduto Frodo ucciso da Shelob, l’umile giardiniere prende Pungolo e l’Unico, senza farne uso diretto, a dispetto invece del libro, dove lo indossa per seguire gli orchi fino alla torre di Cirith Ungol. Nelle Appendici del romanzo, Tolkien svela che Sam è l’ultimo dei portatori a recarsi, dopo una lunga vita di soddisfazioni, nelle terre imperiture. A lui è dedicata l’ultima scena de Il Ritorno del Re: il suo ritorno a casa chiude il cerchio – o l’anello – di una saga immortale.
Alla fine, l’equilibrio sembra essere ristabilito, ma affiora la consapevolezza dolceamara che il mondo, pacificato ma non più puro – perché ha conosciuto la paura della morte, il disastro della guerra, la ferocia della brama – è destinato a una nuova era, dominata dalla mortalità, regno degli uomini, condannati alla perpetua lotta tra luci ed ombre interiori. Denethor, prima di essere un folle, è un padre incapace di affrontare il dolore: precipita, in fiamme, senza riuscire a perdonare se stesso per non aver saputo amare. Gli elfi, gli stregoni, non possono più appartenere a questa realtà. Il potere del male, pur sconfitto, ha gettato semi troppo in profondità, tanto che la guerra di Frodo è divenuta anche battaglia contro se stesso.

Con Il ritorno del re il viaggio finisce soltanto per la Compagnia: la storia degli Uomini continua. Cedendo per un istante alla controversa visione allegorica proposta in un primo momento dall’autore, noi calchiamo le stesse orme di quegli eroi, scrivendo una storia universale che ancora deve finire.
Se «non tutti quelli che vagano sono perduti», come diceva Tolkien, i capolavori – su pagine o pellicola – conferiscono al nostro errare una direzione, per poi ricondurci, ad avventura conclusa, a casa.
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[…] Ho sempre amato la performance di Ian nelle scene finali de Il Ritorno del Re. […]