
Bellezza e umanità nel cinema di Ermanno Olmi
«Uno pensa che il cinema sia una certa cosa, poi arriva Ermanno Olmi e butta all’aria tutte le classificazioni», scriveva Tullio Kezich recensendo Il mestiere delle armi a Cannes nel 2001. Il critico triestino è stato amico ed estimatore del regista bergamasco, e ciò si coglie in ogni singolo giudizio del primo sul secondo dato alle stampe. Ma infondo – come affermava proprio Kezich – era impossibile non diventare complice di Olmi. Affabile e geniale, entusiasta e saggio, testardo e umile. Un concentrato di empatia e pragmatismo. In una parola: umanità. Termine che l’autore pronunciava spesso e volentieri, soprattutto negli anni di lucida senilità prima della scomparsa il 5 maggio 2018. In particolare si erano fatte strada in lui riflessioni sul ruolo dell’individuo nel collettivo, nella storia del mondo e nel rapporto col pianeta. Proprio quel film di cui sopra, realizzato in un millennio e presentato in un altro, aveva tutta l’aria di un discorso programmatico. Sul senso delle guerre, del male, e degli strumenti con cui lo perpetuiamo. Lui che, ex dipendente della Edison e documentarista industriale, di mestiere e strumenti se ne intendeva veramente.

Eppure già agli esordi, all’inizio degli anni cinquanta, quando appena ventiduenne convinse l’azienda non solo ad acquistare attrezzatura per le riprese ma persino ad istituire una sezione apposita per la produzione, Olmi dimostrò di avere molto più interesse per le persone anziché per le procedure. Certo sono dighe e stabilimenti l’oggetto dei suoi primi filmati, ma sempre coadiuvati (se non adombrati) dalla presenza umana. Così come saranno quegli stessi spazi a ospitare un po’ per caso vicende di sentimento e solitudine nelle sue prime pellicole narrative: Il tempo si è fermato (1959), Il posto (1961) e I fidanzati (1963). Una trilogia che venne definita “del lavoro” e che si caratterizza per quel passo più in là rispetto al documentario, uno stile neorealistico basato sull’uso di ambienti reali e non-attori. Una fase di cinema in presa diretta, fatto ad un’età in cui «ti guardi in giro pieno di curiosità – spiegava Olmi – perché devi scoprire il mondo». Un momento dell’esistenza che ti impone l’esigenza di interrogare le cose da vicino.

Mentre crescendo si accoglie l’urgenza di interrogare non solo gli altri, ma anche se stessi. «Cominci a domandarti il perché e il percome – proseguiva – ma il valore consiste nel tipo di domanda che ti poni, non nella risposta che è meglio non dare». Questo movimento interno al cinema di Ermanno Olmi, che potremmo definire “poetico” senza rischiare stravolgimenti, riguarda anche quei film che l’autore non aveva programmato di realizzare. Eclatante l’esempio di E venne un uomo (1965) dedicato alla figura di Giovanni XXIII e che presenta due grandi variazioni rispetto alla prassi olmiana: un produttore (Harry Saltzman) e un attore professionista (Rod Steiger). I conflitti non mancarono, tanto da convincere Olmi a ritornare fra le comode e stanche braccia del film fatto in casa. La seconda interruzione è data da un curioso progetto girato nell’Altopiano di Asiago, dove da pochissimo Olmi aveva scelto di spostare la famiglia per vivere a contatto con la natura e i suoi ritmi. Qui avrà poi modo di sviluppare una sensibilità per l’ambiente che lo porterà a Il segreto del bosco vecchio (1993), tratto da Dino Buzzati, e non solo.
Nato da un’idea di Kezich e Mario Rigoni Stern, I recuperanti (1969) metteva sul tavolo la questione del rapporto fra civiltà contadina e modernità, che presto Olmi sublimerà con L’albero degli zoccoli (1978). Dove il primo parte dai ricordi di quei disperati che andavano cercando residui bellici della Grande Guerra per venderli al mercato, il secondo si basa sui racconti della nonna di Ermanno Olmi durante l’infanzia passata nelle campagne di Treviglio. Un memoriale ripensato e un ricordo immaginato. Due opere fondamentali per comprendere l’approccio del cineasta Olmi alla realtà e alla scrittura. Intanto però escono anche Un certo giorno (1968), Durante l’estate (1971) e La circostanza (1973), che si affacciano invece sulla borghesia urbana, rivelandone slanci di tenerezza e segni schizofrenici. Il Paese sta cambiando sotto gli occhi del cinema e le ideologie ne stanno tarando la doverosa rappresentazione. Olmi se ne accorge e riporta l’obiettivo sui volti disorientati e stravolti delle persone. Anche qui il regista insegue la bellezza più preziosa e sempre segreta che «si mostra con discrezione, mai sfrontatamente». Tutto ciò affidando ai folli e ai puri di cuore – il cattolico Olmi aveva sempre in testa gli innocenti lodati da Gesù Cristo – la ricerca dei colori più adatti alla verità.

Giunge quindi la fase della maturità, quella delle favole e delle metafore, ma anche della malattia e della paura. Camminacammina (1983), minikolossal biblico sull’epopea dei Magi, nessuno l’aveva visto arrivare; e men che meno ci si aspettò Lunga vita alla signora (1987), sorta di allegoria della morte che il cineasta certamente usò per esorcizzare i due anni passati a letto a causa di una fulminante paralisi. Mentre La leggenda del santo bevitore (1988), il primo non tratto da un soggetto originale, già sapeva di rivincita e speranza. L’omonimo romanzo di Joseph Roth chiedeva di essere messo in scena a Parigi, e così Olmi uscì dalla sua bolla per andare alla ricerca senza conoscere alcuna lingua straniera. Una vera e propria sfida che si ripeterà con Genesi: la creazione e il diluvio (1994) in Marocco e ancora con Cantando dietro i paraventi (2003) in Montenegro, sulle cui coste accettò di ricostruire la Cina medievale poiché «cerchi dentro la realtà quel frammento che al meglio, secondo il tuo punto di vista, suggerisce il mistero che una realtà più vasta contiene». Come a dire che la fantasia, a volte, può essere più vera del vero. Come il finale di Centochiodi (2007) o quel larice d’oro in Torneranno i prati (2014), capace di far sognare due soldati abbandonati al loro sacrificio.
Non basterebbero dieci articoli per ricordare l’opera e la vita di Ermanno Olmi, vissuta «attraverso il cinema, ma non vissuta “per” il cinema perché il cinema non è mai stato il fine della mia vita». È stato un mezzo per arrivare agli uomini, «che però resteranno sempre un enigma».
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