
Terminator secondo David Foster Wallace – La visione postmoderna
Terminator 2 – Il giorno del giudizio di James Cameron è stato un film-chiave nella storia di Hollywood. Arrivato nel ’91 sette anni dopo il primo capitolo della saga, i suoi effetti visivi hanno dato una spinta essenziale all’evoluzione della CGI, la tecnica di computer-generated imagery destinata ad essere ripetutamente sfruttata dai blockbuster di là da venire. Ai tempi il film più costoso mai prodotto – circa 100 milioni di dollari di budget, una cifra faraonica per i primi anni Novanta – complice l’inaspettato ritorno di Arnold Schwarzenegger nel ruolo di un Terminator “buono”, T2: Judgment Day fu anche un notevole successo di pubblico, con oltre mezzo miliardo di incassi e alcune sequenze d’azione tuttora presenti nell’immaginario collettivo, accanto alla battuta iconica Hasta la vista baby.
Terminator 2 attrasse l’interesse anche di uno spettatore d’eccezione, lo scrittore americano David Foster Wallace, già ai tempi piuttosto noto per i suoi racconti e il romanzo d’esordio La scopa del sistema. Wallace, come facilmente può immaginare chi conosce il suo stile e le sue idee sulla società ed il mondo, era sferzantemente critico nei confronti di Terminator 2 e, in un articolo del 1998 originariamente pubblicato sul Waterstone’s Magazine, non usò mezzi termini. Il pezzo venne poi ripubblicato in volume con il titolo, chiaramente non redazionale, de L’importanza (per così dire) seminale di Terminator 2: un inciso, un programma.
Nell’articolo, adesso disponibile anche in Italia nella raccolta Di carne e di nulla pubblicata da Einaudi, Wallace esordiva dicendo che Terminator 2 aveva avuto il merito storico di aver «inaugurato quello che è diventato lo speciale nuovo genere di film a grosso budget del decennio: il Porno a Effetti Speciali». La definizione era causticamente provocatoria, ma Wallace si premurava anche di argomentare la sua guizzante intuizione. «Porno perché, se sostituite effetti speciali con rapporti sessuali, i paralleli fra i due generi diventano di un’evidenza inquietante. Al pari degli hard-core da quattro soldi, film come Terminator 2 e Jurassic Park in realtà non sono affatto “film” nel senso comune del termine. In realtà sono cinque o sei scene isolate, spettacolari – scene che includono magari venti o trenta minuti avvincenti, goduriosi – tenute insieme da altri sessanta, novanta minuti di narrazione piatta, spenta e spesso ridicolmente insulsa». Anche se «bisogna ammettere che Terminator 2 è nettamente superiore alla maggior parte dei porno-blockbuster a effetti speciali che lo hanno seguito», restava il fatto che «di sequenze così incredibili ce n’erano a dir tanto otto, e costituivano la sostanza e la ragion d’essere del film; il resto di T2 è vuoto e derivativo, pura policelluloide mimetica». Ipse dixit.

David Foster Wallace con il cinema aveva un dialogo occasionale, ma sempre illuminante: fu molto attento alla rappresentazione del male nell’opera di David Lynch, che secondo alcuni avrebbe anche influenzato il suo secondo romanzo Infinite Jest; Wallace peraltro, all’inizio degli anni Novanta era stato anche il professore di letteratura inglese all’Emerson College di un futuro regista del calibro di Paul Thomas Anderson.
La sua analisi di Terminator 2 non era un occasionale divertissement da radical chic, era figlia anche di un profondo amore nei confronti del primo film della saga di Cameron. Nei confronti del primo Terminator, Wallace non aveva problemi ad ammettere da un lato l’importanza storica di Sarah Connor/Linda Hamilton come una delle primissime donne protagoniste di un film d’azione; dall’altro lato, anche per quanto riguardava il coprotagonista e nel primo film villain Arnold Schwarzenegger, Wallace facetamente segnalava che «perfino il suo stupido accento austriaco a 16 giri/min aggiungeva una piccola sfumatura robofascista perfetta al dialogo del Terminator».

Nella sua recensione-analisi di Judgment Day, Wallace è prima di ogni altra cosa il proverbiale fan deluso dal sequel. È piuttosto addentro anche ai retroscena che stanno dietro alla realizzazione del film, sa che il T-800 di Arnold Schwarzenegger è diventato un personaggio buono mandato dal futuro a proteggere il giovane John Connor semplicemente perché Schwarzenegger temeva che continuare a interpretare villains avrebbe danneggiato il futuro della sua carriera attoriale. Foster Wallace sa che, come ogni film a Hollywood oltre una certa soglia di budget, Terminator 2 è frutto di equilibristici compromessi, e differenza di molti fan del primo capitolo, che hanno giudicato Judgment Day altrettanto se non più bello dell’ originale, Wallace pensa che tutti questi compromessi abbiano messo in crisi non tanto la spontaneità quanto il significato stesso del film.
Se l’originale Terminator datato 1984 era «un’opera di luddismo metafisico cupo, cinetico all’inverosimile e quasi geniale», girata a basso budget da un James Cameron alla sua seconda regia, Terminator 2: Judgment Day è agli occhi di Wallace «un tradimento spaventoso» dell’originale, viziato da una «narrazione furbetta, stereotipata e calcolatrice». Agli occhi di Wallace, T2 risente di un paradosso davvero baudrillardiano: infatti, «Terminator 2 – Il giorno del giudizio, un film sulle conseguenze disastrose dell’eccessivo affidarsi alla tecnologia informatica da parte degli umani, mostra a sua volta una dipendenza dall’informatica mai vista» a causa dei suoi smaccati effetti visivi. Un passo ancora, ed è Matrix.

Gli interventi sul cinema di David Foster Wallace non sono molti, lo scrittore americano resta noto soprattutto per le sue opere di fiction anche se nel 2015, qualche anno dopo la morte, è stato protagonista di un discreto biopic intitolato The End of the Tour – Come diventare sé stessi. Eppure, nelle sue occasionali riflessioni sul cinema, si trovano sparse qua e là delle frasi lampanti sulle quali molti critici potrebbero scrivere libri interi. Una di queste si trova nel finale della recensione a Terminator 2, quando David Foster Wallace passa dall’analizzare i contenuti più o meno latenti del film, a problematizzare l’esperienza stessa della sua visione:
«C’è una strana tensione postmoderna nel modo di guardare il film: sappiamo quali pretese ha accampato la star bancabile, e sappiamo quanto costa il film e quanto siano importanti le star bancabili per i film a grosso budget; e perciò una delle poche cose che ci tiene sulle spine durante il film è non sapere se James Cameron sia riuscito a tessere una narrazione plausibile e non dozzinale che assecondi le esigenze della carriera di Schwarzenegger senza tradire il precedente di T1»

Parole così risuonano ancora più attuali oggi, in cui Hollywood, al di là di una sacca di registi settantenni se non ottuagenari capeggiati da Ridley Scott, Martin Scorsese e lo stesso Cameron, è ormai dominio quasi assoluto delle majors, facendo svanire quel mito di un'”autorialità alla americana” dei registi che la New Hollywood aveva diffuso. Spetta molto più a un produttore come Kevin Feige che a singoli registi come Jon Favreau, i fratelli Russo o Jon Watts l’intuizione del multiverso narrativo del Marvel Cinematic Universe – e, per passare all’universo DC, hanno rappresentato proprio una “tensione post-moderna della visione” à la Wallace le vicende della Zack Snyder’s Justice League, a lungo rifiutata dalla Warner Bros. salvo poi essere completata e distribuita unicamente grazie alle pressioni dei fan.
A poco a poco, le strutture svelano sé stesse: adesso non ci sono più il mito del regista o il divismo degli attori a “sedurre” gli spettatori comuni e ad incuriosirli verso un film già nel momento della sua visione; la casa di produzione, la “firma” di un direttore della fotografia particolarmente riconosciuto, la color palette e tutta una serie di altre componenti tecniche o economiche che fino a pochi anni fa venivano ignorati. Il cinema viene sminuzzato in tutte le sue componenti, e non solo la critica ma anche un’audience generica è adesso consapevole delle logiche da cui dipendono il finanziamento, la realizzazione sul set e la diffusione dei film – ne è prova anche la popolarità acquisita negli ultimi anni dalla A24, una casa di distribuzione diventata a tutti gli effetti un trend per cinefili.

Ciò che David Foster Wallace pensava di Terminator 2 conta poco. Entro un certo limite, si può leggere il suo atteggiamento critico anche come una “posa” fin troppo impegnata. Ciò che è davvero illuminante di quanto Wallace scrive sul film di Cameron è la griglia critica attraverso cui rilegge il blockbuster, e tutta la Hollywood di quegli anni. Neanche dieci anni dopo Terminator 2, arriveranno le Wachowski con la trilogia di Matrix a scombinare ancor di più le carte, a dire che ogni immagine è simulacro, a far sorgere il sospetto che la realtà, anche se non perfetta, è fin troppo appagante per essere autentica – messaggio che si è rinnovato all’inizio di quest’anno, con un quarto capitolo particolarmente anarchico e particolarmente meta-.
Contrariamente alle Wachowski e a David Foster Wallace, James Cameron non aveva alcuna ambizione decostruttiva, ma voleva genuinamente rinnovare il linguaggio degli action movies hollywoodiani, perseguendo quella che accanto alla regia è da sempre stata la sua grande passione, lo sviluppo di nuovi effetti visivi, come dimostra anche lo sforzo che sta mettendo nei nuovi Avatar. Aspettarsi da un film come Terminator 2 un inappellabile messaggio critico è forse una pretesa, ma saper distinguere tra testo e sottotesto, tra un prodotto e il modo con cui esso è presentato o venduto, è una capacità analitica non da poco. È per questo che L’importanza (per così dire) seminale di David Foster Wallace è un pezzo di cristallina vis critica e di profonda originalità interpretativa: e merita di stare, accanto a certe occasionali riflessioni di semiologi come Umberto Eco e Roland Barthes, o di filosofi come Jean Baudrillard e il più provocatorio Zižek, in un’ideale raccolta di recensioni d’autore e occasionali excursus sul cinema che valgono ben di più di molti trafiletti professionali.
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