
FOG n. 5 – La dieta intermediale del cervo
Per cominciare, bisogna che vi definiate, meglio, che vi posizionate. Intendo dire che è consigliabile che capiate che tipo di spettatore siete prima di avventurarvi nella V edizione di FOG Triennale Milano Performing Arts (e nel design di una dieta intermediale tutta vostra).
Questo perché per alcuni di voi la dicitura “FOG n. 5” significa già qualcosa, sconfina addirittura nel repêchage, come per un dibattito culturale messo nel congelatore e opportunamente consumato al bisogno. Questo sapore di revival, innescando un meccanismo di familiarità favorisce il ritorno: è un paradigma filologico-commerciale di base, che ci siano modelli di continuità grazie ai quali siamo pronti a essere smentiti ma solo moderatamente (‘che l’ansia di futuro ci viene già da altro).

Se è così, Umberto Angelini è riuscito in più di un’impresa, facendo di FOG un appuntamento atteso con più o meno trepidazione (come tutte le varianti aggiornate dell’iconica essenza di Chanel). Con un linguaggio di ripetizione (“i numeri, la multidisciplinarietà, persino il multiculturalismo di respiro internazionale”) ha contemporaneamente attivato la memoria e accresciuto le aspettative. In questo caso, quelli di voi che sanno di cosa sto parlando avranno già scelto i posti a sedere: ma la target audience è un’insidia temibile per ogni progetto – tanto più se istituzionale – che voglia accrescere il pubblico e radicarsi nella comunità. Perché il problema di posizionamento, siate tranquilli, non è soltanto vostro. Non è un fatto nuovo – pensate, ce lo diceva già il Vasari – che il fatto estetico sia anche un fatto politico, e che l’arte si presenti come versione di verità in cui estetica e pratica quotidiana, arte e vita collidono. Né è nuovo che siamo figli della rivoluzione transpolitica sessantottina – ahimè, assieme punto di non ritorno e di mancata svolta – e un po’ sappiamo che “questi fatti corali” soddisfano una latente funzione rituale necessaria alla comunità.
Ma quale comunità? Le alternative sono due: o siete già adepti di questo estetismo comunitario, e in tal caso vi chiederete quanto spazio da consumare vi sia ancora, cioè quanto la curva spazio-temporale dell’estetica della performance in FOG possa ancora piegarsi prima di annoiarvi. Viceversa, se guardate FOG con un misto di intrigo e diffidenza, è perché in un sistema in cui anche la cultura è industria massificata, esistono ancora delle no-fly zone in cui lo scisma (ne parlava così Fausto Colombo) è attuato da una comunità per definizione antagonista.
In entrambi i casi, che siate dentro o ai margini della transeunte comunità in questione, FOG non vi lascerà insoddisfatti, a patto che come cervi sacri siate disposti al sacrificio dei pregiudizi e alla rigenerazione vitale.

In Triennale Milano Teatro hanno capito che i sistemi, horti conclusi, vanno fatti dialogare tra di loro, siano essi socio-politici o culturali: pertanto, è probabile che troviate qualsiasi cosa – o quasi – state cercando in un Festival di Arti Performative, e non solo. Innanzitutto, quelli di FOG conoscono la transmedialità: ogni messaggio rimbalza su diversi media, coerentemente con le installazioni e le esposizioni dello Spazio Triennale, fino alle pubblicazioni sul Magazine e ai podcast, in un gioco di risonanze che ribadisce il messaggio fondamentale (di nuovo, “i numeri, la multidisciplinarietà, persino il multiculturalismo di respiro internazionale”). All’interno di questa cornice, si trovano poi gli esempi più diversi di crossmedialità, con proiezioni, realtà virtuale, trasposizioni e convergenze: se questa è la società performativa, si consentirà quanto meno anche allo spettatore di partecipare allo spettacolo (Abercrombie, Longhurst 1998).
Con una simile varietà, FOG n. 5 è capace realmente di essere una maratona di storie raccontate per chiunque. A tal proposito, Paolo Jedlowski ci offre una classificazione delle funzioni sociali della narrazione, che vi propongo per costruire una dieta intermediale tutta vostra.

Tra le funzioni sociali del racconto si erge tra tutte, evidentemente, quella di raccontare, mettere una storia in comune, che rinsaldi i legami di appartenenza. Pensate a Richard Maxwell che affida a tre voci femminili il racconto di una lacerante guerra civile in Queens Row, o a Smail Kanouté che dei sobborghi prende le giovani vittime della violenza da arma da fuoco con Never Twenty One; a Casino Royale e Venaus Quintet che ci portano in viaggio con un racconto sonoro, Road to Polaris, verso scenari metropolitani dal sapore esotico; oppure al cantautore Neil Hannon e al suo omaggio al Sommo Poeta, con The Divine Comedy a spaziare tra l’Inferno e il Paradiso come tra la musica classica e il baroque pop.
Si passa poi a un’ampia funzione referenziale, in cui contenuti e fatti di cognizione generale vengono condivisi. Lo fa Boris Charmatz con Somnole, per esplorare quella misteriosa fase di transizione che conosciamo come dormiveglia; e ancora Clédat & Petitpierre con un leitmotiv della stagione calda: il bagnasciuga e il dolce tepore delle onde, con un progetto a metà tra installazione e performance dal titolo Les baigneurs. Senza soluzione di continuità si intersecano individuale e collettivo nel lavoro di Silvia Costa, già artista associata di Triennale Milano Teatro, che indaga il legame familiare come progetto collettivo intergenerazionale con E Dio si riposò il settimo giorno; sulla stessa traiettoria l’intimo My body solo di Stefania Tansini, coreografia sull’incomunicabilità e la precarietà del contatto con l’altro. Di archetipi collettivi e mitologie antropiche racconta Flora Yin Wong con la prima italiana di Flora Live, in cui antichi strumenti si intersecano a moderne tecniche del suono.
La terza funzione di Jedlowski è quella più propriamente normativa, volta quindi a una forma di educazione rispetto a un tema. Come non pensare al cinismo realista di Brevi interviste con uomini schifosi che Daniel Veronese mette in scena a partire dai feroci dialoghi di David Foster Wallace; e una profonda vocazione etica e in fuga dall’Antropocene hanno anche La notte è il mio giorno preferito,di Annamaria Ajmone e Rettilario di Sara Leghissa, che dell’ecologia delle risorse umane e naturali hanno fatto metodo e mestiere.

Più ludica e legata al piacere della narrazione la quarta funzione, in cui possiamo agilmente inserire To the Moon di Laurie Anderson, avventura immersiva tra cielo e terra, ma anche I AM (VR) di Susanne Kennedy e Markus Seig, esperienza psichedelica alla ricerca di una voce oracolare. Un divertissèment (estremamente calibrato e complice) è la proposta di Christoph Martaler (sì, quello del Leone d’Oro alla carriera), che con Aucune idée ammette di voler godere con cauto disordine del piacere del ricordo di tutto il teatro musicale d’avanguardia condiviso con l’amico e collaboratore Graham F. Valentine. Un happening è invece quello proposto da Vittorio Cosma e The Goodness Factory, nell’ “azione concreta” di Open Machine che avvolgerà il pubblico sia in Triennale che in Fondazione Il Lazzaretto. Ludico e mutlisensoriale è infine Eutopia, di Trickster-p, duo svizzero che trasformerà il palcoscenico in un tavolo per il gaming.
Per chi cerca modelli interpretativi alternativi della realtà (e cioè la funzione cognitiva), una buona soluzione può essere la proposta di Gisèle Vienne che con Etang, uno dei lavori meno noti di Robert Walser, mette in scena le varie gabbie socio-normative, dalla convenzione teatrale a quella dell’istituto sociologico per eccellenza (al pari del Benjamenta): la famiglia. In alternativa, Alessandro Sciarroni con CollettivO CineticO omaggia la ripetizione con Dialogo Terzo: IN A LANDSCAPE, e trasforma quella che sembra ostinata reiterazione in un canto d’amore per la danza (chissà che non funzioni anche con la ripetitiva routine casa-lavoro-casa). Se invece non vi convince l’imperante narrazione infatuata di Illuminismo e Scientismo, La Veronal con Pasionaria ritrae con la danza una distopia in cui il progresso è stato pagato al caro prezzo dell’umanità.
Giocano con le identità (e quindi assolvo alla quinta funzione di riconoscimento dell’alterità), mk con maqam, performance cross-culturale con cui il Medio Oriente entra nell’immaginario sonoro Occidentale; scambiano invece le identità di autori e personaggi Amir Reza Koohestani e Comédie de Genève con In Transit, spettacolo multilinguistico sul rovescimento dei punti di vista. Se invece conoscete bene Milano e l’architettura urbana è parte imprescindibile del vostro riconoscimento identitario, ne ridiscuterete i limiti con le improvvisazioni di Aguyoshi, duo giapponese per la prima volta fuori dal Sol Levante con Azioni performative, e di Ariella Vidach con Improvvisazioni itineranti in Parco Sempione. Molto attesa anche la proiezione di Milano, esito della marcia di scheletri pensata dal Grand Invité Romeo Castellucci, con lo sguardo di Yuri Ancarani e il suono di Scott Gibbons.

L’ultima delle sette funzioni sociali della narrazione è infine quella mnestica, di conservazione della memoria. Con il recupero de La Bayadère di Rudolf Nureyev, Christodoulos Panayitou riflette sull’impossibilità di rappresentare la morte sul palco in Dying on Stage; ripeschano un grande classico anche Deflorian/Tagliarini con Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, liberamente ispirato al Ginger e Fred che, come ogni prodotto felliniano, è a pieno titolo componente integrante di un certo immaginario filmico e antropologico collettivo. Camilla Monga, Chiara Bersani e Philippe Kratz rievocano un’altra pietra miliare della storia della danza, con Swans never die, mentre Dance On Ensemble con Deep Song + Everything/Nothing, Works in Silence, MARMO si appropriano dell’eredità di Martha Graham per affidarla nelle mani di danzatori over 40.
Il menù di FOG n. 5 è pronto, e se non lo ricordate potete sempre far affidamento al palinsesto di
Radio Raheem, la piattaforma mediale e performativa in residenza negli spazi di Triennale Milano.
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