
Il paesaggio impossibile. Luigi Ghirri teorico e intervistato
Luigi Ghirri è uno dei più iconici fotografi del secondo Novecento italiano. Nato in provincia di Reggio Emilia nel 1943, iniziò la sua carriera fotografica alla fine degli anni sessanta, imponendosi presto a livello nazionale e internazionale; dopo un gran numero di mostre e di pubblicazioni in giro per il mondo, morì prematuramente nel 1992. Uscito nelle librerie a maggio, e presentato il 4 dicembre alla Fiera della Piccola e Media Editoria Più Libri Più Liberi da Andrea Cortellessa e Stefano Chiodi, Niente di antico sotto il sole raccoglie tutti gli scritti di Ghirri e una selezione scelta delle sue interviste nel periodo che va dal 1973 agli ultimi anni della sua vita. Del tutto privo di immagini, il libro, edito da Quodlibet, assemblando un materiale eterogeneo composto da note di presentazione alle proprie mostre, prefazioni a cataloghi di altri fotografi, brevi testi autobiografici e altri testi ancora, mira specificatamente a far luce sul versante teorico della produzione di Ghirri.

“Giordano Bruno dice che le immagini sono enigmi che si risolvono col cuore. A chi mi chiede a volte che cosa sia la fotografia rispondo con questa frase perché, tra le possibili risposte anche pertinenti, ma comunque sempre un po’ parziali e restrittive, questa mi pare che sia, nella sostanza, la più vicina a quello che penso”. Scorrendo le pagine di Niente di antico sotto il sole, siamo subito colpiti da una prosa precisa e coltissima, contraddistinta da un equilibrato ensemble di freschezza ed erudizione – sin dal titolo che, ribaltando l’Ecclesiaste biblica, è di fatto preso da Borges. È da un “sentimento dell’origine delle cose” che Ghirri confessa di partire ogni volta “per guardare nel paesaggio: non ritenere nulla insignificante e scoprire in un punto dello spazio, un attimo della vita o in un leggero mutamento della luce la possibilità di una nuova percezione”.
Il modo in cui Ghirri scrive sembra essere il sincero riflesso dello stile in cui Ghirri fotografa; da non sottovalutare peraltro la ricorrenza con cui in queste pagine si affaccia la tematica ecologica, avvertita dal fotografo emiliano in anticipo sui tempi. La spiegazione dell’enigmatico titolo è al tempo stesso la parafrasi di come Ghirri sin dai primi scatti ha consapevolmente scelto e perseguito una precisa idea di stile e di scelta dei soggetti, caratterizzata da un’attenzione spontanea e mai chiarificatrice verso l’attualità e i suoi volti pubblici, e da una resa imparziale e magica dei paesaggi, prevalentemente marini, quali essi appaiono, senza idealizzazioni ma con infinite sfumature. “La prima cosa che mi colpì della fotografia d’allora”, degli anni settanta dei suoi esordi, “era l’assoluta mancanza del presente. C’era una specie di rimozione di tutto il paesaggio che ci stava intorno. Mancava il presente; ed io volevo il presente!“.

Uno dei passaggi più sorprendenti del libro è una conversazione con Lucio Dalla datata 1989, in cui il grande cantautore bolognese dice a Ghirri di ricordare ogni singola sua fotografia che ha visto, perché le avverte come se fossero delle “fotografie musicate”; del resto, Ghirri negli anni era stato l’autore di numerosi servizi fotografici e copertine degli album di Dalla. Tra le pagine di Niente di antico sotto il sole, più volte emerge l’importanza che nella formazione di Ghirri ha avuto il suo rapporto con il cinema – accanto alla musica di Bob Dylan indicata come sua principale ispirazione, una sinestesia ancora più sorprendente. In diversi punti del discorso, Ghirri loda Duel, l’iconico film d’esordio di Steven Spielberg, e Blade Runner, soprattutto su un versante musicale: ma è nei riguardi del cinema di Federico Fellini che Ghirri rivendica un vero e proprio debito, rivelando un amore particolarmente forte per La Strada, che gli avrebbe “rivelato tutto un modo nuovo di guardare nel paesaggio” e soprattutto nel paesaggio marino come in una “scena ideale per il gioco della vita, che si muove su un fondale apparentemente fisso ed immutabile”. Fellini e Ghirri condividevano la stessa origine emiliano-romagnola. Da questa analoga ascendenza regionale, sembra sorgere un comune sguardo anche sulla provincia e i suoi sapori, sospesa tra la bellezza e il conato: e se Fellini avrebbe esemplificato ne I Vitelloni le proprie sensazioni contraddittorie nei confronti della sua nativa Rimini, una delle frasi più folgoranti di Ghirri raccolte nel volume è “il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia”.

Omaggiando ma al tempo stesso opponendosi a una frase di un altro regista e fotografo come Wim Wenders secondo cui la fotografia dà “un ultimo sguardo sul mondo”, Luigi Ghirri propone a più riprese una visione della fotografia come l’arte di rinnovare lo stupore di osservare il mondo nella consapevolezza adolescenziale che “non c’è niente di antico sotto il sole”, niente di già-visto, niente che non sia primigenio, e al tempo stesso irripetibile. “Vedere un paesaggio come se fosse la prima e l’ultima volta“, concludeva Ghirri, “determina un sentimento di appartenenza ad ogni paesaggio del mondo”. Una volta formulato questo diktat, Ghirri confessa di inseguire “un sentimento che mi ricorda il gesto naturale di ‘stare nel mondo’, e che il paesaggio non è là dove finisce la natura ed inizia l’artificiale, ma una zona di passaggio, un luogo del nostro tempo, la nostra” – che espressione rara e chirurgica usa Ghirri a questo punto – “cifra epocale“.

È raro che un fotografo, per non dire un artista in generale, sappia formulare idee tanto chiare e precise sul proprio linguaggio – ma in maniera sempre chiara e mai didascalica Ghirri chiarisce le sue ispirazioni, i suoi obiettivi, il suo approccio alla tecnica e all’immagine in generale. Secondo Kant una delle prerogative del genio sta proprio (semplificando) nel fatto che questi non può spiegare il proprio processo creativo. Luigi Ghirri è un’evidente eccezione a questa regola.
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Foto tratte dall’Archivio Luigi Ghirri
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