
Dati sensibili – Incontro con Teodoro Bonci del Bene | G8 Project
Ho incontrato per la prima volta Ivan Vyrypaev a Mosca, nel 2002. Stavo cucinando degli spaghetti nel dormitorio della scuola del Teatro d’Arte di Mosca (McHat), e Aleksej, mio compagno di classe, tornava dal Teatr.doc. Gli chiesi cosa fosse andato a vedere, arrabbiato perché non mi aveva invitato. Non ricordava il titolo né l’autore, mi disse solo che aveva visto la storia di uno che ammazza sua moglie nel giardino con una zappa perché quando Dio aveva detto che non si deve uccidere lui stava ascoltando della musica in cuffia. Lo spettacolo era Ossigeno di Vyrypaev, e io pensai che in fondo era meglio essere rimasto a casa a cucinare.
Ivan Vyrypaev, Teatro, a cura di Fausto Malcovati e Teodoro Bonci del Bene, Cue Press, Imola 2019, p. 6.
Così Teodoro Bonci del Bene scrive del suo primo incontro con Ivan Vyrypaev, attore, drammaturgo e regista russo. Il mio primo incontro con Teodoro Bonci del Bene e, attraverso lui, con Vyrypaev, è avvenuto invece durante la maratona del G8 Progect – Il mondo che abbiamo, organizzata dal Teatro Nazionale di Genova. Teodoro infatti ha tradotto, interpretato e diretto, insieme a Francesca Gabucci, l’ultimo testo del drammaturgo russo, Dati sensibili: New Constructive Ethics.

Lo spettacolo, il quinto della giornata di maratona che ha inaugurato il progetto, ha avuto la forza di uno schiaffo. “La cosa migliore di stasera”, ho pensato appena è finito. L’urto e il vuoto, le domande e anche l’agitazione che lo spettacolo mi hanno provocato mi hanno spinto a saperne di più. Prima che cominciasse lo spettacolo successivo mi sono diretta verso Teodoro. Sentivo che solo parlando con lui avrei potuto trovare le parole per capire quel che avevo appena visto. “Volentieri – mi ha risposto all’idea di vederci – così ti racconto anche un po’ meglio di Vanja”.
La settimana dopo ci siamo “incontrati” su zoom. L’intervista si è rivelata presto una chiacchierata tra due persone che condividono un momento di vero contatto, capendosi al di là delle formalità. Incontri così sono difficili da riportare. La dimensione intima del dialogo non sempre si riesce e si vuole condividere: c’è troppo di ognuno per trarne un precipitato. E poi, mi dicevo, cosa raccontare di due ore in cui non si è quasi parlato di… teatro? Può succedere, dicevamo, che il teatro arrivi a essere quasi solo un pretesto, una porta per lo spettatore disposto a compiere nuovi incontri e a tentare risposte inedite a domande urgenti, forse poco ascoltate o mai poste. Una porta anche per uscire dalla propria comfort zone ed esplorare zone impervie, paludose e preoccupanti. In quel caso, e questo è il caso, il palco serve come soglia per andare altrove.

Durante la chiacchierata ho conosciuto meglio Teodoro e tramite lui Ivan Vyrypaev. Teodoro ha 36 anni ed è originario delle Marche. Attore, autore, regista e traduttore, si è laureato alla Scuola del Teatro d’Arte di Mosca. Nel 2013 ha dato vita con L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino di Rimini e la compagnia riminese Big Action Money al poliedrico progetto Cantiere Vyrypaev, per diffondere in Italia le opere del drammaturgo e regista russo. Nel 2019 ha curato insieme a Fausto Malcovati per Cue Press la prima edizione italiana del teatro di Vyrypaev, “il più importante autore teatrale russo del ventunesimo secolo”, secondo lo stesso Malcovati. Ivan Vyrypaev, invece, è nato nel 1974 a Irkutsk, in Siberia, e si è formato come attore prima nella sua città natale e poi a Mosca, iniziando a scrivere i suoi lavori in pieno periodo postsovietico.
Teodoro mi racconta di Vyrypaev come di una star della drammaturgia russa, rappresentato in tutto il mondo e molto conosciuto in Europa, ma meno in Italia. «Non esiste persona che faccia teatro in Russia che non lo conosca perché a un certo punto, nel 2004, esce con Ossigeno e cambia le regole del gioco. È come se ci fosse un teatro prima dell’avvento di Vyrypaev e uno dopo. Dopo, se tu lavori come prima – e la maggior parte delle persone lavora assolutamente come prima – è come se avessi fatto finta di non aver visto quello che Vyrypaev ha fatto».

In cosa consista questo punto di non ritorno, è difficile spiegarlo a parole anche per Teodoro. Eppure, avendo visto lo spettacolo, sento di intuire di cosa parla. «È arrivato in scena con qualcosa che semplicemente nessuno pensava si potesse fare in teatro, che nessuno aveva mai visto. Innanzitutto, una quantità di coraggio e una libertà che nessuno si era mai preso, sia di concetti sia in termini di libertà formale. Stiamo parlando di un teatro molto radicale, che si avvicina per noi all’idea di teatro minimo di Peter Brook. Il coraggio di un teatro minimo e diretto per le persone. È vero teatro di parola, ma la parola non è soltanto un termine del dizionario, diventa una porta per una dimensione in cui lo spettatore può vedere sé stesso da un altro punto di vista, o che può aprirgli una finestra su un mondo nuovo. La parola è ritmo, e il ritmo è trans. Non è un simbolo, non ci sono metafore. Però d’altra parte la parola che significa sé stessa, cioè ciò che deve significare, al tempo stesso diventa la soglia perché succeda qualche cosa all’interno di chi l’ascolta. Se vuoi, non è detto. Ti viene proposto. Ti va di stare ad ascoltare? Tutto o solo un pezzo? Ti va di fare questo viaggio con me?».
Mentre parliamo, a un certo punto ci interroghiamo sul diverso ruolo che il teatro assume a seconda delle coordinate geografiche in cui lo si pratica. Il teatro di Vyrypaev ha sconvolto la Russia e affascinato larga parte d’Europa e del mondo, ma in Italia, ripensando a Dati sensibili, sembra non avere avuto la stessa dirompenza. Perché lo spettacolo è passato così sottotono? Perché forse, dico a Teodoro, dove c’è un conflitto più esasperato – e forse in Russia è così – c’è una risposta di pensiero critico e crisico molto più dirompente. Più i problemi sono grossi più l’evidenza diventa esplicita, e l’espressione artistica una reale e possibile soluzione per non arrendersi completamente. A volte, quasi dispiace che taluni conflitti in Italia non siano così esasperati da portarci a risposte più nette e clamorose, che portino davvero a domande che non possono rimanere senza risposta. Perché è questo che Dati sensibili prova a fare.

Dati sensibili è… anche qui, difficile dirlo. È un testo straordinario, potente e ben costruito, sagacemente preciso, dove finzione e realtà non sono ben distinguibili e si ha la sensazione di avere lì, davanti a noi, l’autore personificato dalla sua parola. È pura espressione creativa ma anche forte impegno sociale. Una riflessione non più procrastinabile sulla sopravvivenza della nostra specie, ma anche un disarmante smascheramento dei “migliori” a cui Vyrypaev ipotizza di lasciare il comando del nostro destino.
«Hai mai immaginato di avere davanti a te un grosso pulsante che può cancellare dalla faccia del pianeta tutte le persone che lo rovinano? Cancellare simultaneamente, e in modo indolore, miliardi di persone evolutivamente non sviluppate, lasciando solo le persone aperte, tolleranti, intelligenti ed evolute. Ci hai mai pensato? Premeresti quel pulsante?». Da qui parte il provocatorio tentativo di realizzare una “società dei migliori”, per cui Teodoro mi racconta essere tornato a rileggere anche Platone. Ma presto l’idea di partenza inizia a puzzare, scricchiola come una scala di legno, e un dubbio si insinua durante lo spettacolo: possibile che neanche i migliori siano poi davvero migliori? Malgrado le loro idee, i titoli accademici, l’evoluzione intellettuale e la consapevolezza di come si dovrebbe agire per salvarsi dalla catastrofe, anche i migliori mentono a sé stessi e alle persone che più amano.

«Nella pièce si dice che alcune persone sono sottosviluppate a livello evolutivo. Si parla di analfabetismo funzionale, cioè di ignoranza dei fatti scientifici, di persone ignoranti in termini di biblioteca, di informazioni che sanno. Credono che tutto ciò che è nelle librerie o su internet è fasullo o determinato da poteri forti, mentre in realtà sono pigri e non vogliono dedicare qualche ora della loro vita a informarsi e studiare. Prima di leggere la pièce, non mi era mai chiesto cosa succederebbe se non fossi io la minoranza. Se potessi decidere io cosa farne di queste persone? Ribalta completamente il punto di vista ed è bello perché è come se ci ridesse una responsabilità, come se ci riconsegnasse la possibilità di scelta, in un mondo invece in cui sono abituato, soprattutto in Italia, a vivere come se subissi sempre tutto. E lui mi dice: “E se invece non fossi costretto a subire, cosa faresti?”».
L’indagine socio-psicologica di un’importante multinazionale prende in esame il parere di esperti e luminari in vari campi del sapere. Attraverso le loro conoscenze e opinioni si cerca una soluzione ai problemi che affliggono l’umanità e ne minacciano la sopravvivenza, a partire dall’emergenza climatica. Le interviste riproposte sono di una psicologa, una biologa e un neurobiologo. Ma se anche dei migliori non ci si può fidare sembra non esserci alcuna soluzione possibile. E allora cosa fare? «Per me una soluzione c’è. – mi dice Teodoro – Da quando ho letto questa pièce dico solo e soltanto la verità. Sempre. È tutto più bello. Non posso neanche dirti che è più difficile. È una specie di valanga. È difficile cominciare, ma adesso va in automatico. Prima ho vissuto 36 anni da persona mediamente onesta senza accorgermi che ero abbastanza immerso nella menzogna. Ha a che fare con la paura di perdere qualcosa, come un privilegio, e col rinunciare a un’occasione, avendo qualcosa da difendere. Ma Vyrypaev ci dice che non abbiamo proprio niente da difendere, stiamo per scomparire tutti quanti, cosa vuoi difendere? Non ne vale la pena».

«Il primo punto per una crescita collettiva sarebbe innanzitutto dirci quello che pensiamo, fosse anche “ho paura dei negri”. Almeno mi rapporto con quello che pensi e non con quello che dici. Altrimenti credo di rapportarmi con te e invece mi rapporto con l’immagine di te che tu vuoi darmi, e questo crea un casino comunicativo. È questo ci ha portati alla palude in cui siamo sprofondati. In posti in cui le cose vanno molto male questa palude c’è un po’ meno perché le cose vanno talmente male che non posso permettermi di farlo. Ma l’Italia a me sembra un paese davvero molto malato. È come se dovesse andare in terapia, tutti insieme. Una terapia di nazione».
Metterci di fronte alla realtà dunque, alla verità, in tutte le sue forme: forse solo così una qualche soluzione è possibile. E farlo insieme, con il teatro come strumento di terapia, «perché il teatro è una questione di comunità, non una roba da singoli. Si fa insieme, si va insieme».
Dati sensibili: New Constructive Ethics è uno spettacolo in cui Teodoro da solo, per sessanta minuti, rapisce chi ha davanti stando praticamente immobile su una sedia. La forza della parola, come diceva prima, pregna fino al midollo. Finito lo spettacolo, entusiasta ma sopraffatta, mi sono girata verso la mia vicina chiedendole se le fosse piaciuto. Domanda retorica, pensavo, convinta di trovare altrettanto entusiasmo. La signora – sulla sessantina, sguardo intelligente e aria da spettatrice navigata, rivelatasi poi anche critica teatrale – mi ha invece risposto senza indugio: “No”. Non capivo quella durezza e sicurezza nel voler respingere qualcosa per me così dirompente. “Posso chiederle come mai?”. “Perché non ha nulla di teatrale. Questo non è teatro”.

Ho raccontato questo episodio anche a Teodoro. «Mi hai appena risposto a una domanda. Quando mi è arrivata la rassegna stampa del G8 Project, con vari critici che commentano il proprio spettacolo preferito, non c’era veramente una parola su questo spettacolo. Eppure io dopo lo spettacolo ho incontrato diverse persone che sono venute come te a parlarmi. Persone che come te volevano parlare dei temi dello spettacolo, non dello spettacolo in sé, ma è possibile che di tutte le recensioni uscite nessuna dica una parola su questo lavoro?1 Tu mi hai appena risposto. Per me il fatto che non ci fosse niente di teatrale è la figata. E invece è come se proprio ci fosse alla base un non desiderio di importanza. La straordinarietà di questo spettacolo credo anche io risieda nella sua capacità di portarci altrove, partendo pur sempre dal teatro, come rito, incontro, soglia. Comunque lo si voglia definire.»
«Vedi cosa fa Vyrypaev? Io e te stiamo parlando da un po’ e non abbiamo parlato di teatro. E questo mi fa dire: “Bene, andiamo avanti così”. Stiamo parlando perché tu hai visto lo spettacolo che io ho preparato e che Vanja ha scritto, ma ci stiamo interrogando su altro. E questo lo fa Vyrypaev. Se uno spettacolo fa sì che entriamo in contatto allora è servito a qualcosa. Allora il teatro in cui si spendono così tanti soldi pubblici serve davvero a qualcosa».
Questo spettacolo serve davvero a qualcosa: va visto e discusso, compreso e frainteso. Non tanto per l’importanza che può avere in sé come operazione teatrale tout court, ma per le tematiche non più rimandabili che affronta e la brutale sincerità con cui le propone. Per affrontare certe questioni il tempo sta finendo: è il momento di guardarci in faccia e dirci la verità. A che pro continuare a mentirci? Sperando di vedere presto Dati sensibili in giro nei teatri italiani, teniamo d’occhio le mosse del promettente Teodoro Bonci del Bene, testimone e lungimirante eco del potente teatro di Ivan Vyrypaev.
1. Tra la stesura dell’intervista e la sua pubblicazione sono in realtà apparse alcune recensioni entusiaste dello spettacolo.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
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[…] Dati sensibili è l’ultimo lavoro del russo Ivan Vyrypaev, tradotto, interpretato e diretto da Teodoro Bonci del Bene. La forza e l’urgenza di questo testo, frutto della preoccupazione per la sopravvivenza della nostra specie e del desiderio di attraversare un’impasse, emergono dal sapiente intreccio di dati scientifici, psicologia umana, etica e bioetica. Bonci del Bene tiene un’ora col fiato sospeso senza quasi il bisogno di muoversi: una crocifissione di buonismo, ipocrisie e contraddizioni figlie di un privilegio che, in fondo, non sappiamo come usare per trovare una via di fuga. Il testo, debuttato al G8 Project e poi quasi sparito dai cartelloni, meriterebbe una lunga tournée nazionale. Uno spettacolo imperdibile, una vera bomba a orologeria: quando esplode nulla rimane come prima. Ciò di cui abbiamo bisogno. Maria Fera / Leggi la nostra intervista all’artista […]