
Cry Macho – Un ritorno a casa per lo spettatore
Prossimo ai 92 anni, Clint Eastwood si rimette letteralmente in sella per Cry Macho – Ritorno a casa, sua nuova fatica registica. La notizia è tutta qui, ma a pensarci bene sintetizza un’impresa titanica. Nell’ultimo decennio sono usciti ben otto film da lui diretti di cui uno, Il corriere – The Mule (2018), lo ha visto tornare a recitare dieci anni dopo Gran Torino (2008) e a sei da Di nuovo in gioco (2012) di Robert Lorenz, dove affiancava Amy Adams e produceva. E non si tratta di film piccoli o poco impegnativi. Non si ferma mai, quindi, pienamente in grado di dominare il mezzo per mettere in scena la sua idea di cinema e vita.

Siamo nel 1980. Mike Milo è un ex cowboy che nel pieno della carriera cadde da cavallo durante un rodeo e si ruppe la schiena. Quando l’amico di lunga data Howard Polk gli racconta che il suo unico figlio tredicenne subisce molestie dalla madre, si fa convincere a recarsi da solo in Messico per rapirlo. Giunto nella villa della donna, Mike non trova subito Rafo e capisce che sarà più complicato del previsto. I due vengono inseguiti, si spostano cambiando un paio di automobili e si nascondono in un villaggio dove il protagonista incontra la bella vedova Marta. Ma il vecchio e il ragazzo dovranno presto ripartire.

Il genere di personaggio cui Eastwood dà corpo e voce in questa pellicola, abitualmente, un attore di prima fascia lo incontra intorno ai 50 o 60 anni. Certamente non a 90. Clint, che aveva esordito all’epoca della Hollywood classica, questo deve per forza saperlo. Anche perché la sceneggiatura (poi romanzo) di N. Richard Nash da cui è tratto Cry Macho gli era già stata proposta alla fine degli anni Ottanta. Eppure non mostra timori di sorta e regala forse la sua più onesta interpretazione di sempre. Di fatto Mike non è altro che un divo, un uomo che è stato grande e che ha sofferto. Un’icona. Un mito. È Eastwood stesso.

Il copione definitivo di Cry Macho è firmato da Nick Schenk, già nei titoli dei citati Gran Torino e Il corriere, ma come ogni cosa che il californiano dagli occhi di ghiaccio abbia mai girato, è dell’autore e solamente suo. Ulteriore tappa di un percorso durato sette decenni di attività cinematografica, ennesimo pezzo di uno straordinario puzzle che si chiama America. Sì perché Clint ha sempre raccontato un Paese che in più di mezzo secolo è cambiato sotto il suo sguardo, filtrato da una sensibilità al tempo stesso conservatrice e progressista. Un paradosso di fronte al quale la critica ideologica si è sempre trovata spiazzata.

In concomitanza con l’uscita del film, la Warner propone una docuserie in nove puntate sulla carriera del regista, Clint Eastwood: A Cinematic Legacy di Gary Leva, e ciò permette di accogliere Cry Macho come una summa, un’opera testamentaria. C’è il rapporto col diverso e c’è l’umanità, la diffidenza nei confronti dell’autorità quando rappresenta un sistema corrotto, l’ironia, la colpa e il riscatto, i padri e i figli, il West. Gli spettri di un’intera filmografia. Ma anche le riflessioni sul machismo “sovrastimato”. Le scene di ballo cheek to cheek, dal rinnovato romanticismo. Sentimenti di un mondo che non esiste più.

L’evidenza di questo risultato è che, per quanto ci si provi e riprovi, Clint Eastwood rimane un cineasta impossibile da etichettare, in quanto ha sempre fatto ciò che sentiva. Empatia e talento contro ipocrisia e premeditazione. Un artista del racconto con molti mentori (Don Siegel e Sergio Leone su tutti) ma nessun maestro. Non stupisce quindi che Cry Macho sia un film difficile di cui scrivere. Imperfetto, forse scomposto, che però scorre come un fiume tranquillo e infine lascia un senso di soddisfazione. Mettiamola così: durante la visione, a ritornare a casa non sono Mike e Rafo, è lo spettatore. Siamo noi.
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