
Oltre la finzione – Squid Game tra cultura di massa e ritualità collettiva
Squid Game è l’ultimo fenomeno culturale che dalla Corea del Sud si afferma in tutto il mondo. La serie diretta da Hwang Dong-hyuk è diventata in diciassette giorni lo show Netflix più visto di sempre. Ma non è solo una narrazione che ha investito migliaia di persone, Squid Game è una di quelle storie che non si esaurisce nella finzione, continuando a propagarsi nella realtà. A partire dai social, quel luogo virtuale che è più reale del reale stesso (direbbe Thomas Maldonado). Quali sono i segreti e i retroscena dell’enorme risonanza mediatica che ha visto la serie affermarsi anche come pratica performativa digitale? Andiamo per gradi.
Per chi ancora non la conoscesse (e a questo punto suppongo veramente in pochi), la serie k-drama sud coreana ha come soggetto un gioco di sopravvivenza a cui partecipano 456 persone accomunate dal desiderio di rivalsa sulla propria squallida vita piena di debiti. Trasportati su un’isola disabitata, i players devono superare sei prove che rielaborano alcuni giochi dell’infanzia, a cominciare da “Un, due, tre, stella!” fino all’ultima sfida, lo “Squid Game” (letteralmente “il gioco del calamaro”). Nonostante l’eliminazione dal gioco coincida con la morte, a spingere i concorrenti a partecipare è il premio in palio: 45.6 miliardi di won coreani (l’equivalente di circa 38 milioni di dollari); il valore stimato delle vite di tutti i partecipanti. Ne risulta un survival game a tratti splatter a tratti thriller dove i giocatori tentano di sopravvivere e, in alcuni casi, di eliminare gli altri concorrenti ad ogni turno. Fino a qui tutto bene, ma come è possibile che questo concept, che riecheggia da vicino una decina di manga e anime giapponesi (Battle Royale, Alice in Borderland, Deadman Wonderland…) – ma anche prodotti occidentali molto famosi come Hunger Games –, abbia scalato le classifiche Netflix in così poco tempo?

Passaparola. A un primo livello di lettura è questa la ragione della diffusione immediata e capillare dello show coreano. Squid Game è permeato da strutture, schemi ed elementi provenienti dal mainstream culturale occidentale, soprattutto seriale e cinematografico, ed è questo il punto di forza (per la sua diffusione) e di debolezza (per la sua qualità) più grande della serie. Come qualsiasi prodotto postmoderno ben riuscito lo show è intessuto di continue citazioni tematiche e visive: la scala pastellata che mischia Escher e l’estetica dei giochi anni ‘90, le tute dei sorveglianti che assomigliano fin troppo a quelle dei protagonisti di La casa di carta, la gigante stanze dei giochi con pareti pitturate da sfondamenti illusionistici che ci trasportano subito in uno spettacolo alla The Truman Show, la scelta della busta rossa o blu (stessi colori delle pillole di Matrix); solo per fare qualche esempio. Squid Game arriva dove vuole arrivare, dà al pubblico esattamente quello che vuole, e il pubblico si sente gratificato nel riconoscimento delle citazioni (è il meccanismo esatto che il citazionismo suggerisce). Senza dimenticare che la serie rientra alla perfezione nel grande topos della narrazione di divario sociale, particolarmente sentita in sud Corea, pensiamo anche solo a Parasite.

Eppure l’impressione costante è quella di vedere qualcosa di estremamente famigliare ma allo stesso tempo completamente nuovo (è la potenza dell’abitudine a far funzionare quel principio del nuovo sempre uguale che è alla base del consumo di fiction). La ragione di questa perturbante compresenza va ricercata nell’estrema caratterizzazione in senso estetico della sceneggiatura, tratto tipico dei prodotti culturali coreani e giapponesi. La connotazione visiva dei costumi è talmente riuscita da sembrare una vera e propria strategia di marketing – non a caso forse Squid Game esce giusto in tempo perché tutti ad Halloween possano vestirsi da maschera cattiva o personaggio della serie. Un impatto diretto sul mercato è già avvenuto per esempio con il boom di vendita delle sneakers Slip-One bianche (come quelle che indossano i players), mentre Netflix ha annunciato che collaborerà con Walmart per la vendita di merchandising della serie.

Ma alla fortuna della serie più che il classico passaparola ha giovato la sua entrata diretta nei circuiti di proliferazione dei contenuti web. Come poteva d’altronde Squid Game non diventare fenomeno mediatico? Molti dei momenti topici della serie sono iconici (anche come detto per la studiata caratterizzazione estetica) ma soprattutto memabili, ovvero facili da tramutare in meme: già il primo episodio ha generato il meme che circa tutti abbiamo visto sui social. Da non sottovalutare è anche il potenziale di problematicità e scorrettezza della serie, presupposto alla base di molti contenuti che diventano virali in poco tempo.

La viralità di qualsiasi fenomeno entro il web dipende esclusivamente dalla sua portata di riproducibilità entro sche(r)mi e contenuti di uso quotidiano. Con le parole di Valentina Tanni in Memestetica (Nero Editions) possiamo descrivere il web come:
un ambiente in cui la costruzione della cultura avviene tramite una partecipazione continua, fluida, irregolare e popolare […] in cui l’appropriazione, la deviazione dei significati, la manipolazione dell’immagine, la messa in scena del sé e la deriva verso l’assurdo e il surreale sono parte integrante di un gioco collettivo universale.
In questo senso, il successo di Squid Game dipende in larga parte dall’interattività che ha saputo generare tra il vasto pubblico dei social media. Solo su TikTok i video che ne parlano sono stati visualizzati quasi 30 miliardi di volte (dato dell’11 ottobre) e riguardano in particolare la challenge che gli utenti hanno creato riproponendo la sfida della caramella “dalgona”. Il gioco consiste nel riuscire a spezzare senza rompere delle forme incise in biscotti di caramello rotondi con l’aiuto di uno stuzzicadenti (qui nove cose da sapere sulle caramelle dalgona). Data la semplicità con cui il dolce si può preparare in casa, con pochi ingredienti (zucchero e bicarbonato: era infatti il gioco delle famiglie povere coreane), gli utenti hanno adattato facilmente il concept all’ambito domestico, filmandosi mentre svolgono la sfida e poi caricando il video sui social network. La componente ludica interna allo show aumenta il potenziale di interattività del prodotto, rendendolo il prototipo perfetto per la creazione di internet challenge. Fin dai loro esordi, queste pratiche sono infatti una sorta di mix tra arti performative e programmi tv basati sul superamento di prove tra il comico e il pericoloso (alla Jackass).

Nel web queste challenge si alternano a ondate, seguendo diversi trend, nel contesto di una performatività diffusa che avvicina persone sparse in tutto il mondo come in un “rituale collettivo”. La tendenza di queste forme di compartecipazione digitale è quella di evadere il ruolo passivo di fruitore, proprio come uno dei personaggi della serie assuefatto dalla noia della ricchezza decide che non gli basta più essere spettatore.
E questo non solo nel mondo digitale, la direzione che i fenomeni mediatici più radicati nella cultura di massa spesso intraprendono è quella dell’uscita dallo schermo. Per Squid Game questo si manifesta in diversi modi. La possibilità di replicare i giochi della serie anche nella vita reale – senza le conseguenze mortali – ha dato vita a forme di rimessa in scena come quella tenutasi ad Abu Dhabi il 12 ottobre in cui i partecipanti sono stati selezionati attraverso un quiz a tema, il vincitore ha portato a casa una tuta personalizzata.
Esempi di ritualità fandom che sconfinano nella vita reale sono stati molti altri. Il numero telefonico mostrato nel primo episodio della serie è stato letteralmente assaltato dalle chiamate (fino a 4 mila al giorno): un problema dal momento che il numero esisteva veramente e risultava intestato a una imprenditrice sudcoreana della contea di Seongju. Scandalo mediatico inconsapevole o strategia di marketing? La donna è stata poi risarcita e il numero prontamente sostituito. Simile anche l’episodio dell’IBAN mostrato nell’ultima puntata, cancellato dopo che migliaia di fan hanno iniziato a versarvi 450 won, una cifra simbolica che corrisponde a pochi centesimi di euro. La follia condivisa di Squid Game si manifesta insomma in infinite derivazioni digitali e non, in un continuo rilancio tra reale e virtuale che si alimentano a vicenda.

Quando una narrazione arriva a coinvolgere miliardi di persone in tutto mondo (e non si ferma allo streaming ma incide sulla vita), è chiaro che ci troviamo di fronte a una potenza capace di tramutarsi in mito contemporaneo (quel tipo di mito a “bassa intensità” di cui parla a lungo Peppino Ortoleva in Miti a bassa intensità, pubblicato da Einaudi).
Squid Game è l’apice di un fenomeno più ampio in atto ormai da anni di esportazione di prodotti dell’industria culturale coreana: la così detta “Korean wave” che ha iniziato a propagarsi a metà degli anni Duemila. Canali di questa diffusione sono proprio internet e i social media, che hanno permesso la proliferazione di video (e ultimamente soprattutto musicali relativi al K-pop) sulle piattaforme di condivisione online. Risultato: l’incremento della popolarità globale della cultura sudcoreana che detta tendenza tra le giovani generazioni di tiktokers e influenza addirittura i prodotti occidentali nella loro genesi.
Siamo di fronte a un nuovo tipo di intrattenimento? Vedremo sempre più spesso l’estetica coreana sui nostri schermi? Chi può dirlo, nel frattempo beccatevi sto meme:

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[…] Una serie con tantissimi difetti, che però ha – secondo congiunture astronomiche e storiche – registrato il migliori risultato di sempre in tutti i paesi per la piattaforma di produzione e distribuzione Netflix. Tra critica sociale (tipica di certo audiovisivo sudcoreano) e distopia, Squid Game racconta le vicende di un gruppo di debitori che vengono rapiti, raccolti su un’isola fuori dalle mappe, convinti a giocare a un gioco a premi (anzi a premio, milionario), senza che sia chiara l’unica e sola penalità: la morte. Chi viene eliminato dai giochi (individuali o a gruppi, tutti accomunati dal carattere “infantile” e in qualche modo tradizionale) vien ucciso. Come perdervi un fenomeno dalla portata globale, che caratterizza ormai l’immaginario di tutti? Impossibile. E il creatore e regista, Hwang Dong-hyuk, è già a lavoro per una seconda e una terza stagione. Demetrio Marra.Leggi il nostro articolo sul fenomeno Squid Game qui. […]