
Chambers – Mente, corpo e paura?
Netflix, dopo aver incassato un ottimo successo con la serie The Haunting of Hill House lo scorso ottobre, decide di proporre al suo pubblico una nuova serie sullo stesso genere: Chambers creata e prodotta da Leah Rachel.
Arizona. La diciassettenne Sasha Yazzie (Sylvia Alyria Rose), di origini native americane, può contare solo sullo zio Frank, che cerca di guadagnare da vivere per entrambi tramite la sua piccola attività. Un giorno la giovane ragazza subisce – a causa di uno strano arresto cardiaco – un trapianto di cuore.
Dopo essere tornata nella sua piccola quotidianità, Sasha riceve una visita da Ben LeFevre (Tony Goldwyn), padre di Becky, la ragazza che le ha donato il nuovo organo, deceduta a causa di un incidente domestico.
Dopo l’intervento, le due famiglie cominciano a frequentarsi: Sasha conosce Elliott, il complicato fratello di Becky, e Nacy (Uma Thurman), la loro madre.
Il rapporto che va instaurandosi – al quale Sasha non riesce a sottrarsi sentendosi in debito – diviene morboso, ossessivo, ambiguo. Ben presto però, la protagonista inizia a sentire che c’è qualcosa che non va in lei: inizia a non rispondere più delle proprie azioni, percepisce la presenza di Becky dentro di sé, iniziando ad essere seriamente preoccupata a causa degli strani comportamenti dei LeFevre.
Gli interrogativi sono tanti: chi era veramente Becky? La sua morte è stata veramente causata da un tragico incidente? E ora, è davvero dentro di lei?
Sperimentalismo e autenticità
Chambers sembra essere la figlia diretta di molti lavori e opere horror-psicologiche (dal già citato The Haunting of Hill House [2018], a Rosemary’s Baby [1968]) inoltre nelle sue atmosfere si possono scorgere echi argentiani, anche se culturalmente potrebbe dirsi molto più vicino alle linee narrative di Jordan Peele e alle sue opere ultime quali Noi (2019) e Scappa – Get Out (2017).
Lo spirito di un donatore di organi invade il corpo e la mente dell’ospite che lo ha accolto. Scelta molto gettonata in questo genere, ma rimane, comunque, uno spunto narrativo concretamente ansiogeno, che permette di approfondire la questione dello sdoppiamento d’identità: il modo in cui spesso Becky ha il sopravvento su Sasha è effettivamente d’impatto.
La ricerca di una fotogenia che sia d’effetto ha la meglio nei momenti più lenti e drammatici della serie: l’utilizzo di una fotografia scura e lugubre permette allo spettatore di percepire sia il senso di smarrimento della protagonista, sia di proiettarlo in scenari lontani da quelli in cui è normalmente abituato a vivere.

Il personaggio di Sasha risulta quindi il più interessante.
La giovane interprete, infatti, fa trasparire perfettamente paura, disorientamento e inquietudini.
Stupisce l’interpretazione di Uma Thurman – la già nota musa insostituibile nei film di Tarantino – nel dare vita a Nancy, madre distrutta dal dolore della perdita della figlia: l’attrice svolge un ottimo lavoro di caratterizzazione del personaggio, facendo emergere sia il vuoto interiore del personaggio sia un lato più angosciante.

Una storia, tanti sapori
Ambientazione affascinante e interessante, la dimensione nativa americana resta nell’ombra: ci si trova a cavallo tra divisioni razziali, sociali ed economiche. Tutta la narrazione gioca su due mondi paralleli che si trovano a vivere accanto: la Crystal Valley ricca, agiata e in cui è ben presente un certo culto per la meditazione e per i nuovi orizzonti New Age e una cittadina nel deserto meno benestante, ruvida e in cui giacciono le antiche tradizioni dei nativi americani. Mondi che, in seguito al loro incontro improvviso, si troveranno a vivere nello stesso corpo, quello della protagonista.
La serie trattiene dentro di sé diversi sapori: sia triste che claustrofobico; sia polveroso come il deserto rurale e operaio, sia pulito, asfittico e perimetrato. In questo miscuglio tutti i personaggi vagano alla ricerca della libertà, perché prigionieri di qualcosa o qualcuno: di un cuore, delle proprie origini, delle proprie scelte o di quelle altrui, degli stupefacenti, delle differenze culturali e religiose.
Il centro: l’anima
Ciò che interessa maggiormente a questa serie è argomentare e portare avanti l’idea della perdita dell’identità, analizzando le differenze degli esseri umani nel metabolizzare un trauma.
Un’idea soprannaturale che vede Sasha come cardine, ma dalla quale acquistano significato nella propria caratterizzazione tutti coloro che le ruotano intorno.

Gli elementi soprannaturali sono presentati in modo credibile ed efficace; le scene perturbanti riescono a veicolare perfettamente quel senso orrifico che la serie promette fin dalle prime scene.
Gli inciampi dello sviluppo narrativo
Le ottime basi sono però, purtroppo, rovinate da diversi elementi.
Alcuni personaggi-chiave sono utilizzati poco chiaramente, tanto che a volte ci si dimentica della loro presenza nella storia: l’importanza di questi pare essere data ad intermittenza.
Alcune sottotrame inoltre non sembrano gestite in modo corretto. Quelle più interessanti (ad esempio la gravidanza isterica di Nancy, il curioso culto religioso dei LeFevre, i miti e le tradizioni dei nativi) sono in parte approfondite, per poi non venire più riprese, venendo così trattate come dei riempitivi. Il resto della narrazione è, invece, pressoché inserito solo per allungare il brodo negli episodi centrali. Arrivati, infine, alla rivelazione finale si percepisce un po’ di delusione sul versante occulto, sulle troppe porte lasciate aperte e sulla gestione dell’intero reparto narrativo, che include sequenze clou liquidate velocemente e scene agghiaccianti inserite senza soluzione di continuità.

Non ci sono ancora notizie su una seconda stagione, quello che ci possiamo augurare è una narrazione ancora più accattivante e una nuova esplorazione del versante pauroso della vicenda.
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