
Deflorian/Tagliarini: Chi ha ucciso mio padre a FOG Triennale Milano
Centro e margini. Chi è al centro, e chi viene lasciato ai margini, escluso, non considerato perché lontano. Lontano, quindi non comprensibile agli altri. Questa lontananza è l’alibi per rifiutare di capire e mettersi nei panni dell’altro da sé. Questa condizione di chiusura e ripiegamento su sé stessi viene impedita allo spettatore in Chi ha ucciso mio padre, per la regia di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Lo spettacolo, che aveva debuttato nel febbraio 2020, è andato in scena dal 21 al 23 maggio 2021 durante la quarta edizione del festival FOG Triennale Milano Performing Arts (qui il programma completo).
Deflorian e Tagliarini per la prima volta, invece che drammaturghi e interpreti, sono registi dello spettacolo tratto dal racconto autobiografico del giovane scrittore francese Édouard Louis (Chi ha ucciso mio padre, pubblicato nel 2019 per Bompiani): una denuncia della società contemporanea in cui i più poveri e fragili non solo vengono esclusi ma anche attaccati, diventando capri espiatori su cui addossare le colpe di un malessere che colpisce tutta la società. I veri colpevoli di questo malessere diffuso sono troppo potenti per essere attaccati: la schadenfreude induce a prendere come bersaglio del nostro odio chi è più debole e svantaggiato rispetto a noi.

Questo è ciò che accade nella storia personale di un figlio e suo padre; il figlio si rivolge al padre, ormai vecchio e malato, in un monologo che lascia spazio all’irrisolto e alla rabbia, ma anche a una rivelazione: la storia personale è indissolubilmente legata a quella universale che riguarda tutti noi, compreso il pubblico che assiste allo spettacolo. Il rapporto tra padre e figlio è sempre stato caratterizzato da incomprensioni e incomunicabilità, soprattutto del padre, omofobo e razzista, nei confronti del figlio omosessuale, che si è sempre sentito fuori luogo in un mondo in cui aveva più importanza l’apparire e il possedere, rispetto all’essere.
Il duo Deflorian/Tagliarini parla attraverso la regia, lasciando le azioni fisiche a Francesco Alberici, che comunica le parole di Louis, appropriandosene con la sua interpretazione. L’oscurità domina la scena su cui Alberici si rivolge a figure invisibili, che non si distinguono nel buio ma sono ben presenti: il padre e il pubblico. L’attore è illuminato solo da una fredda e distaccata striscia di neon, e con rabbia prende a calci dei sacchi neri dell’immondizia. In questi sacchi sono custoditi i ricordi di infanzia: oggetti con cui il padre cercava di instaurare un dialogo, che non si è mai basato sui corpi, con il proprio figlio. Questi sparpaglia gli oggetti sul palcoscenico. Sono immobili e inerti, metafore di una società in cui la ricchezza che conta è definita dagli oggetti posseduti. Il padre non rivolgeva quasi mai lo sguardo o un gesto affettuoso al figlio, però, nonostante le difficoltà economiche e, anzi, per nasconderle, cercava di non fargli mai mancare gli oggetti, che ora giacciono nei sacchi dell’immondizia.

Il teatro però compie il suo dovere: il monologo del figlio non è fine a sé stesso ma gli permette di comprendere la vera causa dei suoi conflitti con il padre, che vanno oltre le differenze generazionali; la società e i suoi rappresentanti, i politici chiamati per nome, sono i colpevoli. Se all’inizio la recitazione di Alberici appare meno coinvolgente, in seguito il personaggio acquisisce fiducia e consapevolezza, e rivolge le sue accuse ai veri destinatari: una luce fredda si accende sul palco e anche sulla platea in modo da mostrare gli spettatori, che diventano visibili e coinvolti in prima persona. Non si può scappare. I colpevoli della prematura morte del padre sono tutti coloro che hanno reso possibile, senza opporsi, la sua povertà, la sua debolezza, la sua esclusione, e quindi la sua fine. Il titolo dello spettacolo non ha punto interrogativo perché appare ora chiaro chi è il colpevole.
È colpevole chi è consapevole del malessere diffuso nel mondo e non agisce per contrastarlo, ma rimane lontano, in disparte, invisibile. Deflorian e Tagliarini non accendono una luce solo su temi che riguardano la nostra attualità, dal razzismo all’omofobia, ma ci rendono consapevoli della nostra esistenza e del nostro ruolo di complici, in quanto spettatori passivi della vita. Chissà se il teatro riuscirà nel suo primordiale intento di rendere gli spettatori partecipanti attivi e consapevoli, a teatro così come nella vita. La cultura, per ora, non è riuscita a evitare la morte del padre. Riuscirà a salvare il figlio?

Testo di Édouard Louis
Regia Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
Traduzione di Annalisa Romani edita da Bompiani / Giunti Editore
Adattamento italiano Francesco Alberici, Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
Con Francesco Alberici
Una produzione A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, TPE-Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi e FOG Triennale Milano Performing Arts.
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