
Dear Hacker – Chi ci spia attraverso la webcam? | Biografilm 2021
La nostra recensione di “Dear Hacker” (2020) di Alice Lenay, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
Un giorno il LED accanto alla webcam di Alice Lenay, un’artista e ricercatrice francese, ha cominciato a lampeggiare all’improvviso. Chiunque davanti a un evento simile si sarebbe spaventato e avrebbe portato il computer in assistenza, nella speranza di trovare risposte. Poteva trattarsi di un tasto premuto per sbaglio o di un attacco hacker, ma ad Alice Lenay non sembra interessare la causa di quello strano comportamento da parte della sua webcam quanto la sua natura. L’idea che qualcuno la stia osservando la spaventa e l’affascina ed è proprio su questa ambiguità che nasce Dear Hacker, il debutto di Lenay presentato in questi giorni a Biografilm Festival nella sezione Contemporary Lives.
Partendo dal pretesto di una webcam accesa nel momento sbagliato, la donna decide di condurre delle videointerviste con conoscenti, amici, persone con competenze informatiche e chi non potrebbe essere più distante da questo mondo. Dalle domande tecniche riguardanti possibili spiegazioni al malfunzionamento del computer, si passa all’influenza di questi strumenti sulla quotidianità e ai comportamenti tipici degli utenti. Sarebbe facile per Dear Hacker ampliare questo discorso per affrontare come la tecnologia si sia trasformata da oggetto di possibile alienazione a unica via possibile per mantenere vivi i propri rapporti interpersonali, ma Lenay preferisce avvicinarsi al tema con un approccio filosofico fin troppo forzato.

Nel corso del film, lentamente smette di spiegarsi la luce della webcam in modi sensati e realistici, come un attacco hacker o un semplice errore, optando piuttosto per teorie ai limiti dell’assurdo. Lenay si interroga se possa trattarsi di un fantasma o di un parassita capace di penetrare dentro la sua mente per controllarla. In uno dei momenti più erratici di Dear Hacker, arriva ad attribuire la luce a un dio collettivo che osserva l’umanità attraverso le webcam. Le teorie proposte da Lenay sono nella maggior parte dei casi unilaterali e non condivise dai suoi interlocutori che sembrano quasi costretti a seguirla nei suoi ragionamenti per il bene del film.
Il desiderio di attribuire un significato necessariamente profondo a quella luce finisce per infastidire lo spettatore e per allontanare Dear Hacker dal suo obiettivo. È facile capire che Lenay vede quella luce come una possibilità per indagare il rapporto che lega l’uomo alla webcam. Questo oggetto trasforma il corpo in mera immagine, le cellule diventano pixel, le distanze si annullano e i confini si confondono. La regista dichiara come presto quella luce si sia trasformata in una compagna, che l’aiuta a non sentirsi più sola. È anche tuttavia un oggetto perverso, animato da un desiderio inerentemente voyeuristico, e Lenay si sente quasi in dovere di esibirsi per intrattenere la presenza che anima la sua webcam.
Dear Hacker, nonostante la solida idea di partenza, rimane intrappolato nel suo desiderio di intraprendere discorsi filosofici, passando per l’esasperazione di domande estremamente semplici. Lenay forza il flusso delle conversazioni, distorcendole in modo tale da supportare le sue idee sconclusionate. Nonostante questa artificiosità narrativa, la regista cerca di attenersi quanto più possibile alla realtà sul piano visivo. Sceglie per questo motivo di non tagliare eventuali problemi di connessioni o glitch dalle videochiamate con i suoi interlocutori. Le riprese inoltre non sono mai in una qualità eccessivamente elevata che possa far pensare ad escamotage cinematografici, come in altre produzioni ambientate su Zoom uscite negli ultimi tempi. Questa attenzione estetica non libera Dear Hacker delle sue evidenti e numerose forzature tematiche, che servono a distrarre lo spettatore da un’interessante conversazione sulle relazioni nel mondo digitale.
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