
House of Dolls – Cronache bucoliche di un’età in vacanza | Biografilm 2021
La nostra recensione di “House of Dolls” (Romania, 2021) di Tudor Platon, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
Un’ampia collezione di bambole in abiti tradizionali tiranneggia sulla parete di un piccolo salotto. Seduta al tavolo, una donna rumena racconta al nipote della sua vita. Si chiama Cica, ha all’incirca settant’anni e si è concessa una vacanza lontano dal chiasso della città insieme ad altre tre amiche. Il nipote invece è Tudor Platon, promettente direttore della fotografia rumeno nonché regista esordiente di House of Dolls, ovvero il documento affettuoso e commosso di quella vacanza in campagna.
La prospettiva profondamente famigliare e affettiva che permea questo film semplice ma profondo, avvicina l’impianto formale dell’opera alla spontaneità e l’immediatezza tipiche del filmino delle vacanze. Sulla scena infatti le azioni sono rare, prevale la stasi del momento apparentemente accessorio, la casualità del frammento vacanziero. In realtà, l’approccio linguistico di Platon ha il merito di essere trasparente solo in apparenza. La sua regia è raffinata, avvezza ai quadri fissi e di lunga durata, capaci di restituire le attese, le pause chiacchierate dopo un pasto, i pettegolezzi e i silenzi assorti. Sono inquadrature spesso d’insieme, tese a sottolineare la convivialità e l’iterazione disinvolta tra le protagoniste.

Grande merito ha la discreta irruzione dell’autore all’interno del video. Il suo controllare l’inquadratura in campo, i suoi spunti di riflessione appena accennati, il suo non protagonismo sempre in bilico tra filmico e profilmico, non sono che aspetti fondanti del sentimento di umanità trasmesso dall’opera. In particolare, nelle sequenze in cui segue i passi stanchi della nonna e la ascolta nei suoi flussi di coscienza, diviene nitida una connessione ideale tra ripresa documentaria e slancio emotivo personale e intimo, come nel documentario analogo Madame (2019) di Stéphane Riethauser. Ma quello del nipote-regista rimane un coro, un controcampo sottile ma presente, in grado comunque di lasciare il centro della scena alle protagoniste.
Va sottolineato come le bambole citate dal titolo ibseniano, oltre ad essere un dato peculiare dell’ambientazione, sono anche emblema delle tematiche ricorrenti del film: da una parte l’accezione ludica, di esperienza svagatamente infantile e amicale, dall’altra l’oggetto-bambola e la sua apparenza antica, rigida e stereotipata. Infatti, i racconti amari e ironici sulle aspettative tradite, la bellezza come dote fugace, gli amori sofferti e naufragati, le ribellione alle molestie sul lavoro, sono occasioni di tratteggiare un universo femminile contraddittorio, affascinante e onesto.

Il risultato è una commedia da camera agrodolce che se da una parte può affaticare per un eccesso di verbosità, dall’altra riesce a immergere lo spettatore nell’ambientazione bucolica e ad avvolgerlo proprio per la sua natura dialogica. Ricorda, nella sua venatura nostalgica e nell’approccio narrativo delicato, un film di finzione come Le Balene d’Agosto (1987). In fondo, come nel film di Lindsay Anderson, anche qui il racconto del passato è il dato peculiare del film, un pregresso lungo decenni che si somma al tempo presente dell’opera tramite i ricordi. Anche il montaggio risente di questa natura a-temporale, staccandosi dalla mera cronologia degli eventi e intrecciando scene diverse nel corso del film.
Una volta concluso, ciò che resta di House of Dolls è la nitidezza delle personalità squillanti e variegate delle protagoniste, il loro legame antico e solido, vero e proprio scheletro narrativo del film. Sagge e infantili, nostalgiche e disinteressate, assorte e goliardiche animano la scena con naturalezza per settanta minuti, quasi dimentiche della telecamera. Grazie al semplice viversi giorno per giorno, riescono a creare un ritratto malinconico ma dissacrante della vecchiaia, rappresentata non tanto come mortifero ultimo stadio dell’esistenza, quanto come punto di vista privilegiato e panottico sulla vita intera: un’età in cui smettere di avere paura di dire quello che si pensa e in cui è ancora bello farsi truccare dall’amica del cuore.
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