
A Declaration of Love – Sopravvivere al braccio della morte | Biografilm Festival 2021
La nostra recensione di “A Declaration of Love” (2021) di Matteo Speroni, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
Il 10 dicembre 1982 Pamela Willis viene stuprata e uccisa in casa sua. Curtis McCarthy, conoscente della vittima, viene interrogato, abusato fisicamente e psicologicamente dalle autorità, e condannato a morte per un crimine che non ha commesso. Durante i 22 anni di prigionia – di cui ben 19 nel braccio della morte – Curtis si trasformerà nell’ombra di sé stesso: sepolto vivo in una stanza cieca nel Penitenziario dell’Oklahoma, perderà la sua gioventù, il suo corpo, la sua mente. Riconosciuto innocente e liberato nel 2007, Curtis dovrà imparare a vivere da uomo libero in un mondo che sembra ormai essergli estraneo.

Il senso di scomparsa, la fantasmizzazione del trauma e l’alienazione alla realtà sono i veri protagonisti di A Declaration of Love, documentario della sezione Biografilm Italia attraverso il quale il regista Marco Speroni trasforma una narrazione intima e dolorosa in un’esperienza visiva, un viaggio all’interno della mente smembrata e disorientata di chi è sopravvissuto al braccio della morte. Strade deserte, città mute e strane immersioni nelle profondità di un mare aggressivo e soverchiante sono le immagini che scorrono sotto la voce narrante di Curtis, che ci guida dentro questo incubo di persecuzione giudiziaria e di perdita esistenziale, senza risparmiarci nulla.

Il racconto dei fatti è dunque portato avanti con una precisione chirurgica, ma contrariamente alla maggior parte dei documentari su temi affini, A Declaration of Love bypassa quasi completamente le immagini di repertorio sull’accaduto e recupera atmosfere, scene e paesaggi che possano corrispondere all’emotività e allo stato mentale di chi sta raccontando: non si tratta di un banale intento evocativo, ma di una precisa scelta estetica che fa immergere lo spettatore nel mare di desolazione e solitudine del protagonista e lì lo fa rimanere impantanato. Il trauma causato dalla prigionia il conseguente disturbo da stress non si circoscrivono dunque alla dimensione della testimonianza orale, ma acquisiscono una consistenza materica che fa precipitare chi guarda in un’angoscia da cui, anche a fine visione, è difficile riemergere.

A questa dimensione visivo-esperienziale si affianca la fisicità di Curtis, il cui volto – posto in primissimo piano -, compare durante le fasi salienti del racconto. Associare la voce a un viso ci permette non solo di comprendere quali siano gli effetti del tempo sul viso di un detenuto, ma anche di rivivere con lui un dolore ancora vivo e incombente. La potenza di queste immagini trasforma la vicenda privata di A Declaration of Love in una sorta di atto di pubblica denuncia nei confronti di un sistema giudiziario che si vende come equo e infallibile e che invece condanna i soggetti in condizione di sofferenza socio-economica, proprio in virtù di quello stato di disagio.
Vittima di quello stesso sistema che l’ha abbandonata sin dalla nascita, questa popolazione di disperati viene cannibalizzata nelle prigioni di stato e resa inadatta a una nuova vita dopo la detenzione. Impossibilitato a riemergere dal suo trauma, Curtis ci è infatti affogato dentro: da avanzo di galera si è trasformato in tossicodipendente e homeless, per poi essere arrestato e condannato a dieci anni per droga. Una volta rilasciato è scomparso dalla circolazione, la stessa civiltà che gli ha dato la vita lo ha infine neutralizzato. Finito il film, con un senso di desolazione e sfiducia nel cuore, una sola è la domanda che viene spontaneo porsi: in questa infinita serie di ingiustizie perpetrate dallo Stato, molte delle quali ancora rimaste nell’ombra, chi è il vero criminale?
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