
Maya – Ogni storia ha due versioni | Biografilm 2021
La nostra recensione di “Maya” (2021) di Jamshid Mojaddadi, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
I grandi predatori da sempre affascinano l’immaginario collettivo con il loro carico simbolico: inarrivabili, difficilmente addomesticabili. Assieme alle calamità naturali, sono i portavoce di una natura che può ribellarsi e con la sua imprevedibilità e potenza, arrivare a schiacciare l’uomo; il loro possesso, da morti se impagliati, da vivi se addestrati, ha un significato che trascende il concetto stesso di proprietà per spostarsi verso la dimostrazione egoriferita; connessione atavica ad un passato ancestrale, dimensione di libertà e desiderio di dominio si intrecciano in sentimenti contraddittori.
Arrivare ad instaurare un rapporto così intimo con un animale per sua natura pericoloso, come quello tra Maya – una tigre del bengala cresciuta in cattività – e Mohnsen, capo custode dello zoo di Mashhad in Iran, ha di per sé dell’incredibile e dunque dello spettacolare; attrazione principale della città sono gli scambi d’affetto tra l’uomo e il felino, che sembrano condividere un rapporto d’amore, epidermico e quasi erotico di perfetta simbiosi. Ma sotto questa patina commovente e spettacolarizzata si celano gli intuibili lati oscuri della cattività, con tutta una serie di contraddizioni che a mano a mano vengono messe in campo dal regista, abilissimo a far comunicare coppie oppositive in modo fluido, naturale e senza forzature.

L’idillio precipita dopo che Mohnsen accetta di far recitare Maya in un film: per farlo, devono sottoporre il felino allo stress di un lungo viaggio in gabbia e, una volta condotto in uno spazio aperto finalmente in semilibertà, risveglia il suo istinto indomabile e selvaggio, diventando per pochi giorni ciò che è nato per essere, un predatore libero e potente, che ascolta sempre meno la voce del suo padre adottivo. In queste condizioni, Maya viene ricondotta allo zoo, dove entra in uno stato di apatia.
Iniziano così ad emergere una serie di oscuri interrogativi: l’addestratore – che di mestiere è anche un tassidermista, in un rovesciamento di prospettiva – è ben consapevole di aver dato a Maya una falsa speranza; il rapporto privilegiato di cui gode appare sempre più ambiguo, tra amore (davvero disinteressato?) e sovranità, avvalorato da alcune orripilanti scoperte che emergono dagli armadi dello zoo; il tutto entra in una zona grigia di interrogativi a cui il regista non riesce a trovare riposta, facendo sfiorare al film i toni del documentario d’inchiesta: questioni economiche e morali allora si intrecciano e Maya e i grandi felini risultano essere il perno di tutto il sistema che permette alla città di sopravvivere.

Uno dei grandi meriti del documentario consiste nell’umanizzazione di Maya: riprese ravvicinatissime e montaggio sapiente collaborano ad offrirci un ritratto incredibilmente umano dell’animale, lirico e sentimentale, in cui il soggetto quasi sempre in primissimo piano con il tutto il suo fascino, cozza con il contesto in cui si trova, decisamente indegno e inadeguato per il suo benessere, ma a cui gli operatori dello zoo sembrano non fare caso. Tutti in qualche modo, anche se forse in buona fede, stanno sfruttando Maya.
Dopo quanto visto, se dalla parte della tigre l’amore sembra essere incondizionato («Chi sei tu? Suo marito, suo fratello, il suo amante?» viene chiesto a Mohsen, unico uomo a cui l’animale permette l’avvicinamento durante il parto) possiamo dire lo stesso dell’addestratore? Il regista lascia aperta la questione, demandando la non semplice risposta a chi guarda il documentario.
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