
The Other Side of the River – Libere nella resistenza | Biografilm 2021
La nostra recensione di “The Other Side of the River” (2021) di Antonia Kilian, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
Quando nel 2016 la città di Minbij, nel nord-est della Siria, veniva sottratta all’ISIS ad opera delle Forze Democratiche Siriane, la regista Antonia Kilian viveva una tranquilla e calda giornata di sole estivo a Berlino. Ma quando sei una donna con la vocazione all’indagine documentaria e hai a cuore la libertà e la giustizia, non puoi non farti provocare dalle immagini passate per la televisione e dalle voci, ormai sempre più insistenti, che siano state le guerriere curde dell’Unità di Protezione delle Donne a giocare un ruolo cruciale per la liberazione della città, come dell’intera regione del Rojava. Con la cinepresa in spalla, la regista si aggrega allora a un gruppo europeo di solidarietà per il Rojava e raggiunge i luoghi in cui, proprio in quei giorni, si stava facendo la Storia.

The Other Side of the River è il resoconto dell’esplorazione – durata poi più di un anno – di questi luoghi tormentati da una guerra interminabile, eppure ricolmi di un’umanità viva e desiderosa di riscatto. Il fiume cui il titolo fa riferimento è l’Eufrate, culla di civiltà e padre di miti legati alla fertilità e alle Dee femminili degli antichi Assiri. Le donne, le loro storie e il loro sconfinato coraggio diventano infatti il focus dell’intero racconto, che attraverso testimonianze dirette ci offre una prospettiva nuova su cosa voglia dire vivere la guerra da militante femminista: le donne protagoniste di queste storie sono infatti mogli, figlie, madri che hanno scelto di stare on the other side, di rinnegare il sistema patriarcale – dai cui portavoce sono state abusate, spesso in modi inenarrabili – e di affermare la propria identità di esseri umani, dotati di dignità e libertà dalla nascita.

«I was born this way» è infatti il motto di Hala, diciannovenne curda scappata dalla famiglia filo-Isis per evitare un matrimonio forzato, che ora combatte insieme all’Unità di liberazione femminile con l’ambizione di liberare tutte le donne, comprese le sue dieci sorelle ancora rimaste nelle grinfie dei genitori. I suoi occhi sono la nostra guida, ma nella sua missione la voglia di riscatto personale non si scinde mai da una responsabilità civile profondamente radicata: la sua storia è quella di tutte loro, il male causato dalla prevaricazione e dalla violenza è un nemico comune contro il quale è necessario combattere – come popolo e come singoli -, con le unghie, i denti e le armi. Ma se le scene di addestramento militare sono una costante nel documentario della Kilian, il vero contraccolpo lo si vive nel rilevare la semplicità e la paradossale bellezza di questi volti puliti in contrasto con tutta la depravazione, la povertà e la miseria che li circondano.
La regista sceglie di catturare questi brevi momenti senza aggiungervi parola: inquadra la sorella di Hala col vestito da sposa uscire per strada in un quartiere semideserto, mostra la maglietta fiorata di Hala sotto la divisa militare nel bel mezzo di un appartamento spoglio, cattura la gioia e la voglia di libertà che spande dai suoi occhi quando, dopo aver messo il braccio fuori dal finestrino per sentire la brezza del vento, dice «Thanks to God, Syria and democracy we can live moments like this». Quasi a dire che una resistenza instancabile e giusta è necessario che ci sia e che continui ad esserci, anche fosse solo per quei brevi istanti in cui la pace vince sulla guerra, la bellezza sull’orrore, la libertà sulla tirannia.
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