
Atlantique – Storia di fantasmi e orrori quotidiani
Mentre all’ultima edizione del Festival di Cannes Jim Jarmusch ribadiva il concetto che I morti non muoiono mai veramente, un’altra regista, alla sua opera prima, presentava in concorso la sua personalissima variazione sul tema. Atlantique, della senegalese Mati Diop, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria e ora distribuito da Netflix, sarebbe infatti la più classica delle storie di revenants non fosse per la sua intenzione di svincolarsi immediatamente da qualsiasi logica di genere, abbracciando piuttosto una sensibilità attenta soprattutto ai suoi personaggi e alle loro storie di marginalità e privazione.
Nipote di quel Djibril Diop Mambety che con il suo Touki Bouki aveva rivoluzionato il cinema africano a metà degli anni Settanta contaminandolo con una massiccia dose di sperimentalismo, l’esordiente Diop parte dalla quotidianità del proprio Paese per andare oltre, per imbastire un discorso destinato a toccare da vicino temi condivisi e fatalmente attuali. È proprio qui, nei sobborghi fatiscenti di una Dakar schiacciata tra un Oceano immenso e una downtown illusoria, dove i lavoratori vengono sfruttati senza ritegno e le donne vengono ancora cedute come spose, che il genere subentra lentamente nel dramma e nel melo, insidiandosi nella storia d’amore impossibile tra Souleiman e Ada e in quel loro mondo fatto di prevaricazione, superstizione e ingiustizia sociale.
Un film di zombie, dunque, Atlantique (difficile, del resto, non pensare almeno per un momento al Tourner di Ho camminato con uno zombie), dove i morti viventi di romeriana memoria si mischiano ai jinn della tradizione islamica, ma anche e soprattutto una storia di fantasmi, di morti invisibili che tornano a infestare i luoghi che, tra ingiustizie e sopraffazioni, sono stati teatro e causa della loro morte. Una storia di vendetta, quindi, dove gli ultimi, gli sfruttati, gli invisibili, dopo l’ultimo, disperato tentativo di una vita migliore (la traversata dell’Oceano, in seguito all’ennesimo lavoro non pagato), non possono far altro che tornare, in altri modi e altre forme, magari prendendo in prestito il corpo di chi è rimasto indietro, reclamando quello che è dovuto loro, umanità compresa.
Attraverso un grande rigore e un’innegabile consapevolezza formale, la regista mette così in scena il suo dramma di surreale marginalità, donando al suo lavoro inevitabili connotazioni politiche e sociali. È così che l’immigrazione viene affrontata sotto una luce nuova, a partire dalle sue stesse cause, da un contesto fatto di ingiustizia e prevaricazione che pare autoalimentarsi all’infinito. Ma è comunque una falsa partenza, il viaggio migratorio di Atlantique, un falso movimento, lo stesso di un cinema che torna necessariamente indietro, inchiodando i suoi protagonisti al loro vissuto, alle loro origini, alla loro terra.
Ecco allora, mentre l’Occidente resta fuori campo, relegato in un futuro irrealizzabile o, al limite, ridotto a vaga promessa, i fantasmi di Diop tornare indietro a reclamare la propria dignità, mettendosi al centro della scena e appropriandosi – proprio loro, invisibili tra gli invisibili – dell’inquadratura, chiedendo quei diritti per troppo tempo loro negati, alla ricerca di un posto nella Storia e nella memoria collettiva.
E se la metafora costruita dalla regista è forse fin troppo sfacciata ed esibita, a tratti quasi ingenua nella sua immediatezza, il valore dell’operazione resta comunque inalterato, capace di toccare temi differenti e di forte attualità (compresa l’emancipazione della sua protagonista, una giovane donna che impara il valore della propria indipendenza), forte della carica di un cinema vitale e, in definitiva, sincero e genuino. Primo tassello di un percorso autoriale che, ne siamo certi, ci riserverà molte sorprese.
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