
All-in: illusori nonluoghi paradisiaci | Biografilm 2021
La nostra recensione di “All-In” (2021) di Volkan Üce, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
Il bisogno di rientrare in contatto con la società e la necessità di mantenere la propria famiglia sono le due motivazioni che spingono i giovani Hakan e Ismail a farsi assumere al Nashira Resort, un sontuoso hotel con tanto di parco divertimenti situato sulla costa turca. I due e gli altri inservienti dell’hotel, nel corso di un’intera estate al resort, avranno modo di dialogare della propria vita, della situazione storico-politica del loro Paese e dell’Europa, ma risentiranno progressivamente del contesto in cui vivono.
La regia documentaria di Volkan Üce è elegante, spesso fissa e sempre orientata ad inserire il soggetto all’interno delle ambientazioni paradisiache dell’hotel. I due protagonisti, spesso catturati da inquadrature posteriori o laterali, interagiscono con il sotto-mondo preconfezionato del villaggio vacanze, tramite le azioni routinarie e alienanti delle loro mansioni, con tanto di sorriso, tono gentile e schiena dritta.

È una melting pot inerte quella del Nashira Resort. In fondo, non è che un incontro culturale mancato, anestetizzato dalla funzione-vacanza e dalla voglia isterica di divertimento e relax. Ecco che, quello che Hakan pensava sarebbe stata un’occasione di incontro con culture e individui diversi, si rivelerà invece un dialogo impossibilitato.
“What’s your name?” chiede una turista inglese ad Hakan e, fraintendendo la risposta, ironizza chiamandolo “Harry Kane”. Come se si volesse evidenziare, in un banale scambio di battute, l’impossibilità di comunicazione tra turista e uomo del posto, non tanto per le lontananze linguistico-culturali, quanto per le discrepanze dovute alle loro funzioni così diverse, al luogo stesso nella sua natura funzionale, economica.
All-in è in fondo un film situazionista, che non pretende di agitare il pubblico con climax o risvolti drammatici ammiccanti, basandosi principalmente sull’iterazione tra i soggetti e il luogo in cui vivono e lavorano. O meglio, il nonluogo: quello che Marc Augè definirebbe uno spazio privo dei valori di identità, relazione e storia. Già perché, per quanto lussuoso, il resort è totalmente artificiale, posticciamente impiantato sulla costa turca senza richiamarne le imperfezioni naturali o evocarne le tradizioni storiche.

È un eco-mostro visivamente roboante, pensato a misura di famiglia, popolato da russi, francesi, inglesi mossi da un’irrefrenabile foga di godere della vacanza al suo massimo, intrappolati in totali fissi e lunghi che da una parte richiamano alla durezza formale delle fotografie impersonali di Thomas Ruff, dall’altra echeggiano l’immaginario bestiale e straniato delle opere balneari di Martin Parr.
A guardare attoniti lo spettacolo ipnotico dei corsi di danza del ventre, delle militari esercitazioni di aquagym e della corsa al buffet, i giovani turchi, dalla prospettiva inedita dei sotterranei dell’hotel, dei dormitori sconosciuti e fatiscenti, in cui dissertare di quella che sarà la loro vita fuori da lì. L’affollamento delle piscine, la calca e il chiasso della mensa in cui i dialoghi e gli schiamazzi si confondono in un marasma di multilinguismo, si contrappongono inevitabilmente alle chiacchierate in cui i giovani parlano del loro sogno di realizzarsi e di fuggire in Europa.
Ne emerge un ritratto onesto, che non vuole strabiliare e per questo arriva in modo netto nel suo messaggio politico e sociale. Da una parte, le aspirazioni e i sogni dei giovani turchi, dall’altra, il lato deviato e impersonale di quella che siamo soliti chiamare globalizzazione e che qui è catturata nei suoi aspetti più melliflui, meccanici e stinti: una grande pentola con tante zuppe di colore diverso.
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