
Who We Were – Agire nel presente, per il futuro | Biografilm 2021
La nostra recensione di “Who We Were” (Wer wir waren, 2021) di Marc Bauder, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
We were the ones who knew, but did not understand, full of information but lacking insight, brimming with knowledge, but lacking experience. So we just kept forging ahead, unstopped by ourselves.
Roger Willemsen
Cosa penseranno di noi le generazioni future? Come valuteranno le nostre azioni e quello che abbiamo mancato di fare quando eravamo ancora in tempo? Il documentario Who We Were – diretto da Marc Bauer, con Börres Weiffenbach come direttore della fotografia – si ispira all’omonimo saggio dell’autore tedesco Roger Willemsen, pubblicato postumo nel 2016. “Chi eravamo” è proprio la questione al centro del film, che osserva lo stato attuale del mondo per dare uno sguardo al nostro futuro. È nel presente che bisogna agire – suggerisce il documentario – prima che diventi inevitabilmente passato, e che le generazioni future ripensino a noi con disperazione.
Le sei personalità intervistate in Who we were fungono da testimonianza del fatto che l’umanità possa essere non solo la causa della crisi globale, ma anche la sua soluzione. L’astronauta Alexander Gerst, la ricercatrice delle profondità marine Sylvia Earle, il biologo molecolare e monaco buddista Matthieu Ricard, l’economista Dennis Snower, l’economista e filosofo Felwine Sarr e la filosofa e critica postumanista Janina Loh riflettono sul presente e ipotizzano il futuro.

Presentato inizialmente alla Berlinale 2021, Who we were si inscrive in quella serie di documentari del tipo “uomo-minaccia-pianeta-Terra”, quel genere di film che si concentra sui problemi dell’Antropocene, l’attuale era geologica in cui è proprio l’homo sapiens ad essere il principale fattore di cambiamento nella biosfera (the planet is fine, the people are fucked, avrebbe detto invece George Carlin).
Tuttavia, nonostante siano questioni già trattate (e il documentario rischi di dilungarsi un po’ troppo), Who we were riesce ad offrire un quadro complesso, scegliendo di intrecciare narrazioni diverse piuttosto che concentrarsi su un singolo elemento della crisi globale, e fornendo prospettive ricche di spunti di riflessione.
Inoltre, il film sembra proporre un messaggio di speranza. Sta a noi poter scegliere come verremo ricordati, e “il responso” sarà positivo a patto di riuscire a riconoscere la nostra connessione in quanto genere umano e a comprendere il significato di “noi”. Ad esempio, il filosofo ed economista Felwine Sarr si sofferma su cosa significhi us nell’ottica dell’eredità del colonialismo e della decolonizzazione. Per l’economista Snower, è importante l’adozione di una mentalità cosmopolita.
A concentrarsi invece sul concetto stesso di umanità è Janina Loh: lo fa tramite un confronto in tema di robot ethics con Hiroshi Ishiguro, il fondatore dell’Intelligent Robotics Laboratory (Ishiguro Lab.) a Osaka, concentrandosi anche sull’idea di noi che lasceremo ai posteri.

Le sequenze visivamente più sorprendenti sono quelle ambientate nelle profondità dell’oceano e nello spazio. Nell’ottica della narrazione portata avanti dal documentario, gli estremi opposti della biosfera sono i luoghi in cui l’essere umano ha modo di ridimensionare il proprio ego, e propongono quindi dei cambi di prospettiva al fine di una visione meno antropocentrica. La ricercatrice Earle sostiene che gli oceani, non abitati dall’uomo, siano il centro del nostro mondo; l’astronauta Gerst, osservando il pianeta blu dallo spazio, prende atto della piccolezza dell’uomo.
Un grande contributo al messaggio positivo del film viene dal monaco buddista Ricard. Presentando le sue scoperte sulla neuroplasticità del cervello, afferma che i tratti della personalità possono essere esercitati e rinforzati come qualsiasi muscolo: l’essere umano può cambiare il suo approccio nei confronti della Terra. La speranza è che quando le generazioni future si guarderanno indietro penseranno che, come dice Loh, «we at least tried».
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