
Volevo nascondermi – Un urlo nel silenzio
Un uomo rannicchiato contro un muro, spaventato e schivo, coperto quasi totalmente da uno scialle di lana scura a eccezione di uno spiraglio: solo un titolo come Volevo nascondermi può dar voce a questa primissima scena iniziale, una dichiarazione muta e disperata da parte di un artista che dal silenzio stesso è stato capace di tirare fuori i ruggiti della propria arte.

L’ultimo film di Giorgio Diritti, vincitore di sette premi David di Donatello (tra cui Miglior film, Miglior regista e Miglior attore protagonista) oltre all’Orso d’argento per il miglior attore all’edizione 2020 del Festival internazionale del cinema di Berlino, si imposta come un racconto biografico della vita tormentata del pittore Antonio Ligabue, tra i maggiori rappresentanti italiani del movimento artistico definito naїf.
Non è il primo tentativo di biopic che viene realizzato sull’artista svizzero (è ormai rimasta nella memoria comune la miniserie Ligabue, del 1977, con Flavio Bucci nel ruolo del protagonista e per la regia di Salvatore Nocita), ma l’esercizio di stile di Diritti veicola un messaggio completamente nuovo che risiede nella cura perfetta dei particolari, nella fotografia cristallina fatta di luce e colori sgargianti e nell’interpretazione intima e personale di Elio Germano.

La struttura della narrazione ricorda quella tradizionale dei film biografici sui grandi pittori della storia: a partire dall’infanzia tormentata con i genitori adottivi, durante la quale subisce ogni tipo di scherzi di cattivo gusto che spesso e volentieri scatenano in lui delle crisi nervose, lo spettatore assiste a successi e fallimenti dell’uomo e del pittore Antonio Ligabue.
Grande importanza viene data alla psicologia del pittore, di cui Elio Germano si fa ritrattista alla sua maniera, riconfermandosi come divo del cinema sociale italiano degli ultimi anni. Questa forte caratterizzazione è visibile nel montaggio che evita la successione degli eventi nel corretto ordine cronologico e, soprattutto, nell’uso della fotografia: spiccano, infatti, i colori brillanti del paesaggio fluviale, innaturali tanto quanto le tinte che Ligabue stesso usava nelle sue rappresentazioni di tigri, giaguari e gorilla in foreste verdi ed esotiche.
È quasi come se lo spettatore vedesse il mondo con gli occhi del pittore, attraverso la particolare tecnica della falsa soggettiva (come quelle presenti in molti film di Michelangelo Antonioni, secondo la definizione di Michele Guerra).

Volevo nascondermi è un film fatto di silenzi, dove parlano le immagini, a sottolineare non solo l’importanza della componente visiva ma anche lo strato di incomunicabilità tra Ligabue e la società dell’epoca che, a causa delle sue frequenti crisi psichiche, lo riduce solo al ruolo di “matto del villaggio”; non a caso, tutti i dialoghi presenti nel film sono recitati in dialetto emiliano e in tedesco, per quanto riguarda l’infanzia dell’artista. Il ruolo della falsa soggettiva si fa così ancora più forte e produce nello spettatore un senso di straniamento, come se egli stesso si ritrovasse circondato da quel muro di emarginazione.
L’estraneità dell’artista nei confronti del mondo che lo circonda è evidente anche nella sua scalata verso il successo: grazie alla figura di Renato Marino Mazzacurati e alla gente del paese di Gualtieri che lo accoglie, unico accenno di umanità ricevuta dal pittore dopo periodi di vagabondaggio e isolamento, Ligabue inizia ad avere successo. A questo punto, la narrazione si dilata, permettendo allo spettatore e allo stesso Ligabue di trovare dei momenti di pace: viene mostrato il sogno di una vita “normale”, una donna che il pittore ama ma alla quale non riuscirà mai a legarsi e il conforto nelle proprie opere d’arte, che si tiene strette come se non avesse bisogno di nient’altro.

Eppure, nel momento in cui la sua opera viene esposta a Roma, dove viene valutato da importanti critici d’arte, la reazione del pittore è una sola: quella di scappare, di vagare per le vie della capitale fino ad arrivare ai piedi di Castel Sant’Angelo e di ritornare malvolentieri, con i piedi doloranti poichè non abituati a quelle scarpe così eleganti; lo spettatore percorre quindi lo stesso percorso di estraneità dell’artista, anche nel successo, in un dedalo infinito e opprimente che trova la sua via d’uscita solo nella morte, in seguito a un ictus, nel ricovero Carri di Gualtieri. Anche di fronte alla morte è presente la voglia irrefrenabile di fuggire per continuare a vivere in un mondo labirintico e intricato, nel quale non sarà mai totalmente parte, ma nel quale l’unica possibilità di scappare è su una delle sue tante motociclette rosse.
Volevo nascondermi è un sentito ritratto composto da ritratti, che riporta alle radici di una terra campagnola a tinte brillanti e alla scoperta di un artista che nel suo immenso silenzio è stato capace di scuotere l’Italia e il mondo con la potenza delle sue opere e con l’urlo della sua libertà, che pure nella follia trova le sue radici.
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