
Salone del Libro 2021 | Il cinema di Giorgio Diritti e il suo nuovo film
È una chiacchierata a tutto tondo, quella di Giorgio Diritti al Salone del Libro di Torino con la critica cinematografica Piera Detassis. Il regista di Volevo Nascondermi, Orso d’Argento a Elio Germano per la migliore interpretazione maschile alla Berlinale 2020, ripercorre la sua carriera fin dalle origini, con alcune graditissime se pur parche incursioni verso il suo nuovo progetto cinematografico, di cui vengono rivelati tema e genesi. La novità: il prossimo film del regista figlio di profughi istriani sarà il suo primo tratto da un’opera letteraria, da qui il pretesto per intervenire alla kermesse letteraria italiana per eccellenza..
Il seminatore di Mario Cavatore affronta il caustico e sommerso tema dell’eugenetica statale contro gli “zingari bianchi”, i nomadi Jenisch, nella Svizzera dagli anni ’30 agli anni ’70 del secolo scorso, fenomeno razzista che ha strappato quasi trentamila bambini alle proprie famiglie d’origine in nome di una vita «in condizioni igieniche e morali adeguate», nella sedentarietà e sicurezza di un lavoro considerato maggiormente onorevole. Diritti conosce Cavatore tramite comuni amici, ne diventa amico egli stesso e riceve dell’autore una copia del libro, che lo colpisce particolarmente. Il lavoro sul soggetto parte quindi dal testo letterario estendendosi ad altre fonti, scritte e orali, e vedrà le location alternarsi tra la provincia di Verbania e l’Alpe di Fanes in Alto Adige, oltre ovviamente ad alcuni territori svizzeri di Bellinzona e Zurigo.

In costante viaggio durante i suoi lavori, il regista che partecipò e organizzò le attività di Ipotesi Cinema con Ermanno Olmi e curò, fra le altre cose prima di dedicarsi alla regia, il casting de La voce della Luna (1990) di Fellini e l’incisione da assistente fonico di album come Bollicine (1983) di Vasco Rossi e 1983 (1983) di Lucio Dalla, dimostra ancora una volta una certa attenzione per il tema della difficile e fragile bellezza che nasce dall’incontro di culture diverse, fil rouge forse di tutta la sua produzione insieme al senso del movimento e del viaggio (rintracciabile a partire già dai titoli), fin da Il vento fa il suo giro (2005), primo lungometraggio completamente indipendente – famoso anche in questo, del resto, Diritti non ha mai lavorato a Roma o nei circuiti cinematografici “ufficiali” – autoprodotto dalla troupe e dagli abitanti delle location, che fu un vero e proprio caso italiano rimanendo in programmazione al Cinema Mexico di Milano per un anno e mezzo; per proseguire poi con L’uomo che verrà (2009) e Un giorno devi andare (2013), prima di arrivare all’opera sulla vita del pittore Antonio Ligabue, grande affresco filmico sulla diversità così come sulla difficoltà di integrazione, quasi come fosse riflesso su pellicola lo stesso rapporto con l’industria di cui Diritti (non) fa parte, evidente parallelo col pittore per stessa ammissione del regista.

Proprio quest’ultimo, tuttavia, si dice sorpreso della potenza che l’Arte porta con sé deflagrando nonostante tutto e tutti: raccontando ancora di Volevo Nascondermi Diritti ricorda come la pellicola, dopo il trionfo berlinese, subì per prima il lockdown della distribuzione in sala, rimanendo “congelata” fino al successivo ferragosto per poi, tra cinema all’aperto e lente riaperture, rimanere in sala fino allo scorso inverno. È il tentativo continuo di mettere l’uomo davanti all’uomo, per provare a migliorarne un poco l’esistenza: ecco lo sforzo umanista oltre che artistico che c’è dietro ogni opera dirittiana, e che si esprime per lo più attraverso territori, luoghi, persone e loro storie personali: per il regista bolognese c’è sempre un valore emotivo prima ancora che informativo, oltre che un’alta responsabilità nel racconto – e forse, in questo stretto senso il titolo probabilmente più emblematico tra i suoi lungometraggi resta L’uomo che verrà, così come l’interpretazione più attenta è senza dubbio l’ultima di Elio Germano. Come si evince dal risultato finale l’attore romano ha compiuto un percorso di immedesimazione parallelo a quello di ricerca del regista, con le sue stesse modalità, al fine di evitare in tutti i modi di sembrare, come dichiarato da Diritti in persona, un fin troppo poco mimetico Elio Germano che recita Antonio Ligabue: attraverso un’immedesimazione iperrealistica e professionale, attraverso ore di trucco e corsi di pittura e di dialetti, quello che si ricerca è proprio un’esperienza di diversità effettiva, da trasporre e proporre al pubblico nel buio della sala, al fine di proiettarlo già dalla scena iniziale del film – la nascita, da uno schermo buio, di un disabile, guardacaso – dentro un cinema umano, fatto per un umano, da un umano a suo modo ribelle e accorto di nome Giorgio Diritti.
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