
Perdutoamor – Gli addii e i ritorni di Franco Battiato
“Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali, il resto è sogno interrotto da qualche sprazzo di veglia.” Una voce fuoricampo pronuncia queste parole, mentre la macchina da presa in soggettiva svolta un angolo, percorre lentamente una strada deserta, si ferma davanti ad una porta dal cui vetro si intravede il viso sorridente di una donna che poi la apre. Qualcuno a noi ignoto era atteso, sempre in soggettiva si guarda attorno e raggiunge svariate donne, di ogni età, sedute nel cortile interno ed intente a cucire. Alcune di esse alzano lo sguardo, fissano fugacemente in camera, sorridono e tornano al loro lavoro. Eccoci, siamo entrati, noi in compagnia del nostro misterioso ospite, in Perdutoamor (2003), il lungometraggio d’esordio di Franco Battiato.

Nel 1955 Ettore Corvaja (Luca Vitrano/Corrado Fortuna) è un bambino curioso, eppure introverso che cresce in un gineceo a capo di cui ci sono la madre Mary (Donatella Finocchiaro) e la nonna. Il padre lavora in Francia e torna sporadicamente al paese, in Sicilia. Della sua cultura si occupa il barone Pasini (Gabriele Ferzetti) che lo instrada sulla via della musica e della filosofia. Ormai cresciuto, in seguito alla morte del padre, Ettore decide di lasciare la Sicilia e di trasferirsi a Milano per seguire la sua vocazione di musicista e ben presto anche di scrittore. Quella che lo attende è una scoperta stimolante ed inconsueta del mondo e di se stesso.
Sul fatto che ci sia un forte autobiografismo, non c’è alcun dubbio. Ma è davvero questo il nocciolo della questione, oppure solamente un’ancora d’appiglio per viaggiatori inesperti e poco intrepidi? Il percorso di formazione di Ettore è il mezzo ideale per innescare una riflessione più profonda sul tempo, sul mondo, sull’essere e sui punti di vista. Battiato mette in scena tre stagioni – oserei dire anche quattro – della vita umana, lasciando che siano esse, come anarchici fenomeni atmosferici, a modellare carattere, sguardo e fisico dell’individuo. L’infanzia profuma di casa, di scoperta, di sogni all’orizzonte segnati da mari burrascosi che si impastano con l’aspra e polverosa terra di Sicilia. Ettore, è più spettatore che fautore del suo destino. In silenzio accondiscende e osserva lo sgretolarsi del nucleo famigliare e l’affermarsi di una figura materna forte che, temeraria, non teme il vuoto lasciato da un marito fedifrago. Da adolescente, invece, comincia a sentire lo scalpitante bisogno di superarsi, di scoprire cosa rende dinamica e colorata la vita, ragione per cui la partenza non può che essere un nuovo inizio, nel bene e nel male, con la precarietà e la responsabilità che implica. Vivere Milano, la sua frenesia, i suoi misteri, stimola l’acerba poliedricità latente di Ettore che percorre tutte le strade possibili dell’Arte, alla ricerca di quella che più si confà al suo essere in perenne mutamento.

Musica, letteratura, esoterismo, filosofia sono sperimentazioni intellettuali capaci di dar corpo ad una personalità che non si dirama e sfalda – come spesso avviene a contatto con troppe fascinose attrattive –, ma che si arricchisce di sfumature e venature che contribuiscono a renderla completa. L’eroe introverso di Battiato si mostra intrepido e fermo. Il suo è un processo di maturazione che trova terreno fertile nella tenacia e nel bisogno di dar sfogo ad una creatività sempre esistita e mai davvero esplorata. Le cadute ci sono, eppure quasi non hanno risonanza in un percorso che punta alla comprensione e al miglioramento privo di giudizio. Ettore, deciso, determinato e rigoroso nella sua intima eccentricità non pecca di manie di protagonismo, lascia spazio al saggio coro di presenze amiche e ostili che segnano, volontariamente o involontariamente, il suo cammino. Un bassista affidato all’estroso Morgan, un critico musicale impersonato da Francesco De Gregori, un editore interpretato da Elisabetta Sgarbi, sono incontri necessari e prolifici che contribuiscono attivamente alla formazione del giovane che in Sicilia tornerà solo una volta realizzato.

La circolarità della vita, segnata da quei due – coincidenti – momenti reali porta l’uomo, chiunque egli sia, a tornare al punto di partenza, a quelle radici che, se ben piantate, conservano intatta l’autenticità dell’individuo. Ed è così che sul finale la voce fuoricampo si manifesta con le sembianze di Manlio Sgalambro che profeticamente prevede un ritorno all’aspra, mistica e onirica Sicilia che con i suoi poteri, regalo di grandi filosofi/sciamani della Storia, strega ed incatena a sé i suoi figli.
Perdutoamor, con il suo impianto artistico sempre in bilico sul filo del rasoio, aperto alle contaminazioni e alle sperimentazioni, oltre che ai colti omaggi, è un alternarsi di “ben tornati” e “arrivederci” che beffardamente strizzano l’occhio all’idea di perdita. Eppure, se si è destinati a tornare sui propri passi, e ad essere nuovamente accolti – come sottintende la scena iniziale –, il perduto si astrae e tende ad una condizione puramente empirica, la stessa con cui oggi dovrebbe essere interpretata la dipartita di Franco Battiato.
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[…] e della recitazione. Critiche già mosse anche al film d’esordio dell’autore, Perdutoamor, ma qui più forti, aspre, perché più forte è la sua […]