
Edward Albee. Chi ha paura di Virginia Woolf? di Antonio Latella – Nel fondo oscuro dei sentimenti
È tra i più iconici testi della drammaturgia di ogni tempo quello che nel 1962 spiazzò il pubblico di Broadway quando Edward Albee, tre volte Pulitzer, portò in scena la storia di una doppia coppia con Chi ha paura di Virginia Woolf? (o un altro modo per dire Who’s Afraid of the big bad Wolf?). Merita a proposito, dal principio, una nota il titolo stesso di quest’opera che gioca sulla quasi-omofonia tra “wolf” (lupo) e “Woolf” (Virginia, scrittrice), lasciando intendere a priori nello spettatore il peso che la ricerca più costruita del linguaggio con la sua potenziale spinta musicale, serrata punteggiatura e vorace corporeità riveste all’interno del teatro, e ancor di più in questo classico, dove la parola è sempre ‘detta’ o ‘recitata’, ma abortita per essere letta o scritta.

Ma cosa c’entra la Woolf? E perché averne paura? Ebbene, su quest’interrogativo Antonio Latella mette alla prova la sua sofisticata regia, spesso ispirata al paradigma americano (in spettacoli come Un tram chiamato desiderio, Francamente me ne infischio o La valle dell’Eden), scegliendo di misurarsi con il capolavoro di Albee – come prima di lui, tra gli altri, Franco Zeffirelli, Mario Missiroli e Gabriele Lavia – nella nuova brillante traduzione di Monica Capuani e affidando il lavoro di dramaturg a Linda Dalisi. L’allestimento, prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria, ha debuttato a Spoleto il 9 gennaio, proseguendo una lunga tournée in tutta Italia che tra le sue prossime date annovera Pavia, Genova, lo Strehler di Milano per concludersi al LAC di Lugano il prossimo maggio.

Nell’adattamento della pièce, che tra i suoi celebri precedenti ha visto protagonisti interpreti del calibro di Liz Taylor e Richard Burton in un omonimo film del 1966, alla coppia Sonia Bergamasco–Vinicio Marchioni è stato rimesso il compito di vestire i ruoli di due coniugi all’apice della crisi, topos del dramma borghese tradizionalmente inteso. La sinossi gioca, brevemente, su un incrocio chiasmatico dei rapporti di coppia che diverrà, nel corso delle quasi 3 ore di rappresentazione, un inevitabile jeu au massacre, mosso da ricatti di adulterio, ipocrisie relazionali e ritorsioni feroci.
Il primo elemento che porterà la coppia a vacillare non si farà attendere molto: già dalle prime battute sappiamo che George, professore universitario, ha sposato Martha, più grande di qualche anno e figlia viziata del preside di facoltà, disattendendo però in seguito nella controparte le aspettative di assumere a sua volta la stessa posizione di prestigio. Tutto comincia in medias res: lei già ubriaca, lui seduto in poltrona (e qui in più occasioni solidamente piazzato, irremovibile) che non perde occasione di rimproverarla. Il connubio in scena tra i due attori è ben assestato.

In un clima di angoscia irrisolta, si colloca allora la presenza scomoda della scrittrice inglese, che non era per Albee – come lo definisce Latella – un mero “vezzo intellettualistico” messo lì per caso, bensì il modo di concretizzare in un solo ed efficacissimo nome (o nume tutelare) la potenza lacerante di un linguaggio: il visionario linguaggio che, nel Novecento, diede il la a una nuova idea di narrazione, a una nuova idea di libertà femminile (se pensiamo al rivoluzionario saggio protofemminista del 1929, Una stanza tutta per sé), avulsa dall’immagine dell’esser donna in qualità di ‘angelo del focolare’, e soprattutto a una nuova idea di esorcizzare la morte praticandola in vita. All’insegna di un monito di trompe-la-mort che fa tornare alla mente, per analogia d’animo, alcuni versi di poeti italiani, come Vincenzo Cardarelli (“La vita io l’ho castigata vivendola”) o Ungaretti (“La morte si sconta vivendo”).
Così il ritornello intonato al piano da Martha/Bergamasco, sempre nel testo e in questo caso specifico alle prese con una delle sue più incisive performance attoriali (impeccabile nella fisicità, credibile nei cambi vocali, artificiosa all’occorrenza), che ripete “Chi ha paura di Virginia Woolf?” come fosse una filastrocca di buon compleanno diventa il tappeto su cui si consuma la battaglia dialettica di una notte, affondata nelle vertigini incontrollabili dell’alcol, della disinibizione disperata e di vorticose risate.
Nella sua sobria mise borghese, il personaggio di George/Marchioni (giustissimo nella più rigida parte) ha invitato a casa sua dopo una festa tra colleghi del Dipartimento universitario uno di loro con la moglie (Nick e Honey, impersonati credibilmente da Ludovico Fededegni e Paola Giannini), per poi eleggere i giovani ospiti a prede sacrificali e bersagli centrati di una bagarre domestica. Di un matrimonio giunto al capolinea, soffocato entro le pareti di una scenografia scarna (firmata da Annalisa Zaccheria e composta da una credenza per i bicchieri dei liquori, un palcoscenico cosparso di statue di ceramica a forma di gatti che Albee tanto amava), antistante un tendaggio di velluto verde che, poco più avanti, richiamerà un certo immaginario lynchiano e i suoi stilemi caratterizzanti: la loggia nera di Twin Peaks e le sagome di coniglio da Inland Empire rappresentano una delle poche trovate registiche originali che tradiscono la concezione minimale di un allestimento tutto basato sulla crudeltà della sola parola drammaturgica.

Le pedine sono pronte, la miccia lì per scoppiare, l’incastro degli umori è perfetto. La coppia più anziana, sadicamente, tenterà di estorcere dai due freschi sposini intime nevrosi e violente verità che i due non hanno il coraggio di confessarsi reciprocamente, come il desiderio di maternità tramutatosi per Honey in una gravidanza isterica. Si scoprirà, analogamente, che un figlio della coppia cinquantenne non è mai esistito, in virtù di un parallelismo che probabilmente Albee inferì dalla sua stessa autobiografia, riferendosi alla sua condizione di orfano, rifiutato dai genitori naturali e adottato da una ricca famiglia di impresari teatrali a poche settimane di vita. Specchio di sterili solitudini e noie condivise, di quando sembra che sentimenti – ormai impestati dalla monotona routine di coppia – non assolvano più alla loro funzione originaria, le due coppie lasciano cadere ogni velo, si liberano di ciascuna bugia, offrono senza orpelli una nuda emotività in pasto alle convenzioni di una società puritana e conformista che li ha finora oppressi.
Martha e George, coi loro tranelli, scambiano a turno con le due vittime “il coltello con cui frugare dentro se stessi” e ci riescono benissimo, sfiorando – dopo colpi di pistola e isterici pianti – picchi di nettezza recitativa, sempre più scavando e dissotterrando la verità dei fatti ridotta all’osso, l’infelicità comune. Si crede erroneamente a volte che per tenere in vita l’amore occorra rigenerarlo con un’altra vita, ma quando la nuova nascita non avviene, l’invenzione di un figlio (mai nato) diventa per i due – dapprima – il cerotto per curare una ferita insanabile, e – dopo – con la sua morte accidentale il pretesto per accettare finalmente la realtà, per quanto dolorosa essa sia. Con i suoi fantasmi. Con i suoi progetti suicidi. Con le sue terribili frustrazioni. Colando a picco negli stati abissali dell’inconscio dove dimorano tutte le risposte alle nostre recondite paure, pronte a sbranarci dal fondo, che per qualcuno hanno il nome di Virginia Woolf o forse sono state proprio le sue.
Spettacolo visto al Teatro Bellini di Napoli
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