
Cassandra – Apologia del Teatro (e non solo) secondo Federica Bognetti
Il moto vorticoso di una danza scomposta, armonica e frenetica segna l’entrata in scena di Cassandra nel chiostro, attiguo al Teatro Fontana, della chiesa di Santa Maria alla Fontana dove si svolge lo spettacolo. Andato in scena dal 6 all’8 luglio 2021, Il mio nome è Cassandra si configura come un momento di vasta riflessione e soprattutto di toccante apologia del Teatro, per il Teatro, in bocca e nel corpo di Cassandra, la profetessa, la figlia di Priamo, principessa di Troia.
Il personaggio mitologico dischiude dinanzi ad un ristretto pubblico una forza nuova. Non solo il gesto, passo di danza o altro che sia, va a significare e vivificare il personaggio. Cassandra è anche parola, parola e gesto profondamente congiunti nella pièce di Federica Bognetti, alla penna della quale si deve la drammaturgia di questo monologo.

La sua «holy pain», il dono di Apollo, l’essere profeta, porta Cassandra ad essere tutte le vite e, dunque, tutte le parole. Ella ci riporta al principio stesso della parola, il λόγος (lógos), l’inizio che è Dio, il momento di scaturigine dell’essere. Quando ancora non c’era che la divinità, la parola fu il mezzo per la creazione. Ma il dono della profezia non affonda certamente solo nel passato. Cassandra è uno squarcio sul divenire, una serie di frammenti che si manifestano sulla scena. In questo suo essere ogni cosa, ella parla per citazioni, attraverso le parole di altri disposte secondo una nuova logica che le vivifica di un senso nuovo, quello che solo Cassandra, in una prospettiva così ampia, è in grado di carpire.
Una ritualità di gesti (la bacinella da cui si attinge l’acqua per compiere quella che può essere letta come una abluzione sacra) accompagna l’agire sulla scena di questo personaggio, gesti che evidenziano il carattere profondamente performativo di Cassandra, in cui al ballo e alla recitazione si accompagna il canto: Cassandra che, microfono alla mano, diviene rapper che musica il personaggio Socrate delle opere di Platone.

In questa profonda commistione di azioni sulla scena, la figlia di Priamo finisce per rivelare la sua più profonda natura: Cassandra è il Teatro, è l’artista a teatro, un attore creatore, un’attrice creatrice che sviluppa il suo multiforme essere. L’apologo arriva alla fine, quando questa sua natura si è pienamente disvelata nel suo compiersi durante lo spettacolo. Cassandra è il Teatro, quel luogo che contribuisce al nutrimento dello spirito, ma ridotto al silenzio, abbandonato dallo Stato. Nelle parole dell’attrice la denuncia è senza mezzi termini («delitto di abbandono»).
Sappiamo che Cassandra viene costretta ad assumere delle pillole che non la uccidono, la annullano, spegnendola lentamente. Ma non demorde. Resiste come Elena di Troia nel monologo di Elisabetta Pozzi, andato in scena al Teatro Fraschini di Pavia, e regala al suo pubblico il suo sguardo sull’esistenza come Santippe nel monologo di Franca Valeri (La vedova Socrate), recitato da Lella Costa e andato in scena al Teatro Sociale di Brescia.
Cassandra sa che di sé stessa sempre una traccia sarà presente, nelle sue parole, nei suoi gesti o anche solo in un battito di ciglia che un gene ribelle farà viaggiare nel tempo e nei corpi. In fondo, al termine di ogni cosa (spettacolo compreso), ella è cosciente che la sua voce ribelle non può essere spenta.
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