
Edgar Wright – La parodia dell’omaggio
E così la colonna sonora si unisce, in un eterno abbraccio, a quella visiva. Due metà di una stessa mela, timide e indecise, che hanno spesso preferito mantenere le distanze, dandosi raramente la mano. Poi arriva un regista come Edgar Wright, e di colpo musica e immagine possono adesso ritrovarsi, legarsi, pulsare insieme e all’unisono nelle vene filmiche del regista inglese.
Classe 1974, originario di Poole (Dorset), ma cresciuto nel Somerset, Edgar Wright sembra essere nato con la cinepresa tra le mani. Figlio legittimo della terza Hollywood e consumatore bulimico di quella produzione cinematografica giocata su un netto distacco tra realtà quotidiana e artistica, Edgar Wright inizia dirigere i suoi primi film a 14 anni. Un enfant prodige, un mago abile nell’estrarre dal cilindro del cinema dettagli e generi da interiorizzare e rimaneggiare a proprio piacimento. Dalla Trilogia del cornetto, passando per Scott Pilgrim vs The World, fino alla sua opera più recente, il campione di incassi Baby Driver, il regista inglese non ha paura di confrontarsi con i padri fondatori dell’universo cinematografico, arrivando a sfidarli a duello, a colpi di rovesciamenti stilistici e parodistici.
La parodia dell’omaggio

Parodìa s. f. [dal gr. παρῳδία, comp. di παρα- per indicare somiglianza e ᾠδή «canto»).
Ma nel mondo di Edgar Wright nulla è come sembra, e così un concetto semplice, ampiamente assimilato, conosciuto, e solitamente collegato (in certi casi erroneamente) alla rilettura satirica di certe opere, come la “parodia”, cambia maschera e natura. Non più – e non solo – semplice abbassamento linguistico con cui screditare irrisoriamente l’opera originale, la parodia si eleva a parte imprescindibile di uno stile registico con cui omaggiare la settima arte. Corollario citazionistico e contenitore di riferimenti alla cultura pop di appartenenza, la parodia per il regista inglese si tramuta in ponte di comprensione di un’opera e allo stesso tempo galleria autobiografica e culturale da rinnovare senza stravolgere. Un dialogo costante, di reciproca attenzione e ammirazione, quello che intercorre tra Wright e il cinema. Un rapporto passionale e imperituro, nato in seno a un amore sviscerale, dichiarato apertamente sin dal suo primo lungometraggio, quel A Fistful of Fingers che già dal titolo rivelava il suo approccio umoristico e allo stesso tempo umilmente servile al regno della Settima Arte in primis, e all’universo degli Spaghetti Western alla Sergio Leone poi. Come Stanley Kubrick, Edgar Wright ha fatto dell’appropriazione di generi e testi preesistenti delle pagine da riscrivere in soggetti che intessano un marchio di fabbrica ormai riconoscibile e unico. Cassetti della memoria aperti e mai chiusi dai quali Wright si diverte a ripescare frame ed elementi scenografici senza per questo cadere nella trappola della facile scopiazzatura, ma rafforzando piuttosto una visione stilistica ben consolidata dove la parodia ancora una volta si mostra come strumento efficace attraverso cui comprendere nel profondo un’opera, il suo tempo e il pensiero del suo autore.
Citami, o Musa

Per ricostruire e non rottamare bisogna avere una relazione passionale con il passato, un filo diretto con un pantheon citazionista a cui ispirarsi con un guizzo iconoclasta e di profonda devozione. Quello post-contemporaneo è un momento storico dove al cinema tutto è stato detto o fatto, e il pericolo di saturazione attrattiva verso questo universo è perpetuamente in agguato. Al fine di rinnovare e investire di freschezza questi micro-universi, Edgar Wright gioca con un background cinefilo e una calibrazione di mode citazionistiche che tanto caratterizzano la sua estetica autoriale. Dottor Frankenstein cinematografico dei giorni nostri, Wright crea nuovi universi come tanti patchwork di esperienze passate; fantasmi di celluloide che si ripresentano di colpo nel processo creativo; immagini ipnagogiche nate dal sogno della sala cinematografica. E così affrontare la sua produzione significa passare in rassegna decenni di cinema, collage di titoli che fungono da modelli per dar vita a figli simili ai propri genitori, conservando un’identità propria e distinta. Se in Baby Driver batte il cuore di Driver – L’imprendibile, (film del 1978 di Walter Hill a cui già Nicolas Winding Refn si era ispirato nel 2011 per il suo Drive) e Gangster Story (Bonnie and Clyde, Arthur Penn 1967), quello messo in mostra ne La trilogia del Cornetto è un carosello cinematografico che tocca tutta la storia della Settima Arte. E così il mondo di Carpenter e Romero abbraccia e si mescola a quello di Shaun ne L’alba dei morti dementi; Point Break, Bad Boys e i più adrenalinici film polizieschi si insinuano tra gli inframezzi umoristici di Hot Fuzz, mentre la fantascienza di Spielberg (Incontri ravvicinati del Terzo Tipo), e quella più classica e recente (Cowboys and Aliens) sono l’acquaforte su cui ricreare il proprio capitolo sci-fi come The World’s End.

Ma a Wright il mondo del cinema non basta, e così dopo aver parodiato gli zombie e action-movie, il regista sbarca in America adattando il suo humor nerd britannico a una delle graphic novel indie più apprezzate tra gli appassionati del genere: Scott Pilgrim. Se talune parti sono state riproposte pedissequamente, è nell’approccio “grafico”, figlio di altre operazioni analoghe come 300, Sin City, Kick-Ass, che si nota l’estro di Wright, autore capace di riprodurre ritmi, stilemi e caratteristiche grafiche di videogiochi e fumetti. Non dissimilmente da quanto compiuto da Damien Chazelle in La La Land (id., 2016), Wright mette in mostra gli originali e le fonti, tra desiderio di svelare la propria ampia cultura cinematografica e un sincero piacere dell’omaggio. Una giostra lanciata a mille all’ora, dove tutto assomiglia a tutto, per trasformarsi in qualcosa di nuovo, proprio come la maschera dell’Austin Powers di Mike Myers in Baby Driver, parodia e citazione di un mondo per un altro.
Dal bricolage del cinema come infinito archivio di possibilità con cui giocare, Wright è passato da talentoso sabotatore a grande narratore, da appassionato di giochi a demiurgo del fantastico, in un racconto senza fine.
Action on the dance-floor

Danzano i personaggi di Baz Luhrmann. Danzano quelli di Joe Wright, di David O. Russell, e anche di Quentin Tarantino. Lo fanno su palcoscenici teatrali, su piste da ballo, in spazi domestici, o locali improvvisati. Ma a danzare sulle strade di città che si affacciano come testimoni di un mondo fatto di azione e sangue, spari e risate, sono anche i personaggi di Edgar Wright. I loro non sono passi coreografati, ma gesti, piedi stanchi e strascicati, o mani smaniose di muoversi, appartenenti a corpi prigionieri di una routine destinata a reiterarsi sempre uguale a sé stessa. Ballano i figli nati dal grembo mentale di Edgar Wright. Da passivi osservatori di un mondo violento, i suoi protagonisti si ritrovano improvvisamente catapultati nel gioco dell’azione. Eroi ironici di un mondo che corre più veloce delle macchine guidate da Baby, ogni protagonista messo in campo da Wright è, metonimicamente, riflesso speculare di quel gioco al ribaltamento dei generi e delle strutture narrative e attanziali che lo supportano. Il tutto accentuato da un commento musicale mai lasciato al caso, ma studiato, strutturato su una perfetta sincronizzazione tra suoni e immagini che scivolano sullo schermo, unite e tagliate da un montaggio che sa di passi di ballerini professionisti. La colonna sonora onnipresente e sovradimensionata è dunque il vero fiore all’occhiello della produzione filmica di Edgar Wright. La sua è una presenza irrinunciabile alla buona riuscita dei film, talmente importante da essere pianificata e sviluppata ancor prima dell’apparato visivo. La musica extra-diegetica e gli effetti sonori operano all’unisono sotto forma di impianto scheletrico all’interno del quale realizzare successivamente – e in base ad esso – le sequenze. E così scene come quelle con in sottofondo Tequila, o Hocus Pocus, Don’t Stop Me Now, derivano tutte da una pianificazione sonora sulla quale sono state poi adattate “in sync” le immagini. Un dancefloor della vita, quella immaginata, esacerbata in maniera iperbolica, o semplicemente presa in prestito da altri mondi e investita di nuova linfa esistenziale.
Edgar Wright. Il genio dell’autorialità

Piani-sequenza, carrellate, panoramiche, montaggi serrati e inquadrature che scivolano via al ritmo di un battito di ciglia. Sono battiti cardiaci in accelerazione quelli che tengono in vita i mondi di Edgar Wright. Uno stile che supera i confini del cinema per abbracciare quello dei videoclip musicali (Colors di Beck), e perfino degli spot pubblicitari (Choose Go! per Nike). Ma è nell’ambito della Settima Arte, grembo materno e cordone ombelicale da cui alimentarsi, che la fucina creativa di Edgar Wright si accende e pone le proprie fondamenta. I suoi improbabili eroi si mostrano di fronte alla sua cinepresa stanchi di un mondo a cui non si sentono di appartenere, colti nel loro tentativo di fuga, per poi esserne catapultati al centro, eretti a salvatori. Edgar segue Baby come seguiva Shaun ne L’alba dei morti dementi, o Scott Pilgrim nell’omonimo film del 2011. Lo fa per mezzo di una messa in sequenza dinamica, integrata da una componente musicale che non solo dà il la agli eventi, ma ai movimenti stessi dei protagonisti. Il suo occhio artificiale è insieme testimone curioso di queste strambe esistenze, e allo stesso tempo fiamma primigenia che infonde in loro la vita. La coppia Frost-Pegg de La trilogia del Cornetto è una dicotomia di successo, grazie alla quale consolidare non solo una propria estetica autoriale, ma anche un modo di fare cinema riconoscibile e individuale. Scott Pilgrim e Baby Driver sono la controparte americana dei duplici protagonisti delle commedie inglesi. Entrambi accumunati da una timidezza di fondo che infonde in loro una paura di relazionarsi e fidarsi, Baby e Scott si ritrovano alla perpetua ricerca di un proprio posto nel mondo. E fa sorridere che siano proprio loro, eroi imprevedibili catapultati al centro del sogno americano, a farsi bandiere di storie di autodeterminazione e rivalsa personale. Il Valhalla della cultura pop fatta di videogiochi e fumetti, che incontra e abbraccia quello delle auto, dell’adrenalina, affidano le proprie speranze a sognatori con cuffie o berretti che coprono loro le orecchie, isolandoli dal mondo esterno per aprire quello interno fatto di immaginazione e speranza.
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