
Breve storia del Time Lapse: poetica del flusso, pornografia del tempo
Si parla di time lapse quando la frequenza di riproduzione dei fotogrammi è superiore alla frequenza di cattura. In altre parole, quando le immagini di un soggetto fotografato per un dato intervallo (lapse) vengono riprodotte serialmente in un periodo compresso di tempo (time). Particolarmente suggestivo nella rappresentazione di paesaggi urbani e naturali, dei processi di costruzione e disfacimento, il time lapse è una tecnica nata prima del cinema stesso, e che nell’arco della sua storia ha servito gli scopi più disparati.
Genesi del time lapse
Come molte altre trovate illusionistiche, il time lapse fu perfezionato dal pioniere del cinema di fantascienza e degli effetti speciali, Georges Méliès. A dar retta agli archivi è suo il primo cortometraggio in cui figura questa tecnica, Carrefour de l’Opera (1897-8), andato perduto come 300 degli oltre 500 titoli firmati Méliès. Spetta quindi (pare) a Frederick S. Armitage (1874-1933) la palma del più antico time lapse perfettamente conservato, con la Costruzione e demolizione dello Star Theatre di New York (sopra, 1901).
Armitage, al pari del naturalista Percy F. Smith (1880-1945), del microbiologo Jean Comandon (1877-1970) e del biologo Roman Vishniac (1897-1990), contribuì a sviluppare il time lapse su soggetti naturali come piante o fiori, come nel muto Birth of a flower (1910, sotto). Germinazione, crescita, maturazione, fioritura, fruttificazione, senescenza racchiusi in pochi attimi. A lungo esclusivo appannaggio del cinema documentario, il time lapse rende visibile i processi naturali celati dalla quarta dimensione invisibile della realtà: il tempo.
Time lapse come immagine-tempo: Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio
Bisogna però attendere a lungo affinché il time lapse, da semplice tecnica documentaria, diventi l’espressione compiuta di una poetica. Nel 1982 la triade composta dal regista Godfrey Reggio, il direttore della fotografia Ron Fricke e il compositore Philip Glass realizza Koyaanisqatsi, film sperimentale privo di dialoghi e trama, poema sinfonico accompagnato da ritratti, paesaggi urbani e campestri in reverse motion e time lapse. Nella lingua Hopi, Koyaanisqatsi significa “vita senza equilibrio” o “vita fuori controllo”, descrizione che già nel 1982 calzava perfettamente allo stile di vita iper-consumista e anti-ecologico del capitalismo americano. Nelle ripetute inquadrature di stazioni, raccordi autostradali, grandangoli urbani, cattedrali del gioco e dello shopping, il time lapse rivela il moto incessante e insensato delle masse. Catturati ripetutamente dalla camera fissa, gli individui si (sovra)imprimono sulla pellicola come spettri, tracce impalpabili della frenesia che governa ogni spazio della contemporaneità, sottile e pervasiva come aria.

E che come l’aria rimane invisibile, finché il medium della macchina da presa la rende manifesta. Allora si vede la città percorsa dalle vene pulsanti del traffico, i neon che si allungano in stringhe di luce. I time lapse di Koyaanisqatsi sono immagini-tempo deleuziane, «in cui si affrontano immediatamente, direttamente, il passato e il futuro, l’interno e l’esterno», il presente e il divenire del rapporto disarmonico tra umanità e natura. L’immagine si proietta istantaneamente oltre il proprio contenuto per innescare analogie, riflessioni, mediante l’esibizione cruda e seriale di grumi di tempo in purezza, non più animati da parole o personaggi, ma da lampi, flussi, relazioni, vettori. L’ampiezza dei campi lunghi viene stabilmente occupata dal furore del tempo, generando l’impressione di un inquietante conto alla rovescia. In questo senso il time lapse di Koyaanisqatsi, come l’immagine-tempo deleuziana, «non ha più come caratteri primari lo spazio e il movimento, ma la topologia e il tempo»1.

Time lapse e serialità: storia naturale e altre storie
Era inevitabile che, munita di sensi inediti e strategie innovative, la tecnica del time lapse tornasse poi a raccontare la natura. Il dipartimento di storia naturale della BBC (Natural History Unit) offre dal 1979 documentari di qualità eccelsa, spesso accompagnati dal commento suadente e puntuale del naturalista David Attenborough – Planet Earth e Blue Planet le serie più celebri. Nel corso degli anni, anche la serialità ha emancipato il time lapse dall’impiego originario, che consisteva nella mera ripresa statica di un soggetto al fine di documentarne lo sviluppo. Il filmato sottostante, da Planet Earth II, combina time lapse, zoom e piani sequenza in un suggestivo ritratto della lightscape di Hong Kong, in cui svanisce ogni differenza tra il giorno e la notte. Qui la virtù proiettiva del time lapse dispiega il presente, punto che fugge (in punctum praeterit, diceva Agostino), in una linea che abbraccia passato e futuro, mostrando il soggetto dell’immagine non soltanto per come è, ma per come non è più e per come potrebbe essere.
Tornano alla mente le parole di Junichiro Tanizaki, che già nel 1933 scriveva, «Oggi siamo talmente intorpiditi dalle luci elettriche che siamo diventati completamente insensibili ai danni di un’illuminazione eccessiva»2. Il time lapse sembra quindi produrre un duplice movimento: da un lato sottrae lo spettatore alla banalità del quotidiano, inquadrandolo a distanza; dall’altro, immerge il soggetto dell’immagine in un reticolo di possibilità contestuali. L’immagine è sempre legata al suo superamento, catturata in un intervallo di tempo accelerato che inserisce ogni soggetto all’interno di un ciclo vitale altrimenti destinato a rimanere nascosto. Gli ecosistemi e gli organismi ripresi dalla mdp, come gli insetti zombificati dal fungo Cordyceps in questo estratto di Our Planet, sono nature morte in divenire. La cruda esibizione del mutamento, unica legge che non muta, si configura quasi come una pornografia del tempo, della vita nuda esposta alla sua fragilità.
Eppure, nell’età d’oro della serialità il time lapse non poteva certo rimanere esclusivo appannaggio degli almanacchi di storia naturale. Accanto alle giungle, ai deserti, alle tundre, alle foreste, molte serie hanno utilizzato la medesima tecnica per rappresentare in maniera più vivida le rispettive ambientazioni. Fra gli esempi più noti, la Washington DC di House of Cards, la Albuquerque di Breaking Bad e Better Call Saul, l’algido Ontario di American Gods. L’accelerazione del tempo spreme dai luoghi i colori e i movimenti che ne determinano, insieme alla natura, anche il fascino.
Seduzione e decomposizione: Lo Zoo di Venere
I documentari BBC commentati da Attenborough hanno ispirato anche Peter Greenaway, che li ha inseriti nella sua opera più celebrata, Lo Zoo di Venere (1985). Dopo la perdita delle mogli, i gemelli Oswald e Oliver maturano un ossessivo voyeurismo per la decomposizione. Qui il time lapse viene quindi utilizzato non per raccontare la crescita e lo sviluppo, ma la senescenza e il disfacimento, realizzando una sorta di controcanto visuale all’Origine delle specie di Darwin (piuttosto, un Epilogo delle specie). Dopo mele, pesci angelo, carcasse di cigni, zebre e coccodrilli, i gemelli ovviamente vogliono filmare la decomposizione di un essere umano, ma gli unici volontari che trovano sono (ça va sans dire) loro stessi.
Lo spettatore, costretto a contemplare in pochi attimi la perdita di freschezza della carcassa, il rigonfiamento dovuto all’accumulo di azoto, metano e diossido, la proliferazione di bigatti e la liquefazione dei tessuti, riconosce nel time lapse un incontro accelerato con la propria finitezza. Non un semplice memento mori, piuttosto il riconoscimento dell’esistenza come pura temporalità. Soltanto l’arte, leitmotiv del cinema di Greenaway, vince il flusso del tempo, consegnandosi ai posteri. Arte che, ne Lo Zoo di Venere, si concretizza proprio nei filmati in time lapse, installandosi al centro di un triangolo mitico formato da Eros, Tanato e Crono.

Postilla conclusiva non scientifica
Il time lapse è dunque una tecnica fotografica adatta a ritrarre soggetti estremamente specifici o estremamente vasti, che in entrambi i casi gratta la pelle del presente per portare alla luce le vene del tempo. Cara soprattutto al cinema documentario, ha abitato come un ospite inquietante i cine-poemi sinfonici di Godfrey Reggio e i grotteschi catalogue-movies di Peter Greenaway, scavandosi una nicchia, ristretta ma profonda, nel cinema d’autore sperimentale. Nel cosmo accelerato del time lapse, che sottrae ogni immagine all’illusione della stabilità per comprenderla nella verità del movimento, l’osservatore può riconoscere «una immagine-tempo diretta, che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento»3.
Note:
1 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Milano 2017, p.149
2 Traduzione dell’autore da Junichiro Tanizaki, In Praise of Shadows, Leete’s Island Books, Stony Creek (Connecticut) 1977, p.36
3 G. Deleuze, op.cit., p.21
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