
Festival Bolzano Danza 2020: un’edizione diversa – Intervista al direttore artistico Emanuele Masi
Spesso le aree meno centrali, proprio per la loro distanza da abitudini e tradizioni del loro nucleo, sono il terreno fertile per novità e sperimentazioni: la città di Bolzano, nell’estate 2020, ha ospitato un’edizione del Festival Internazionale Bolzano Danza diversa dal solito, ripensata a partire dall’emergenza sanitaria scoppiata nei mesi immediatamente precedenti. EDEN – Danza per uno spettatore si presenta quindi come un esperimento innovativo, che ha coniugato l’urgenza della presenza, necessaria per un’arte performativa come la danza, all’attualità del presente, che sembra oggi preferire la distanza.
Ed è a distanza, via Skype, che Birdmen Magazine ha avuto l’opportunità di conoscere e dialogare con Emanuele Masi, direttore artistico del Festival, il quale la scorsa estate ha saputo reinventare la trentaseiesima edizione della rassegna, rispondendo all’esigenza di pubblico e artisti di tornare a vivere la sala teatrale, dopo la chiusura forzata dei mesi primaverili, rispettando regole e diffidenze imposte dalla pandemia.
Emanuele Masi, co-direttore del Festival dal 2011 e direttore artistico dal 2013, possiede una particolare sensibilità nell’interpretare, attraverso arti come la danza, la musica e il teatro, necessità e desideri delle persone: EDEN – Danza per lo spettatore nasce proprio come risposta all’urgenza di ritrovare la dimensione del rapporto con l’altro da sé. Attraverso una nuova modalità, il singolo individuo si riscopre come corpo individuale, necessariamente teso all’incontro con l’altro, ancora possibile nello spazio del teatro. Il Festival Bolzano Danza diventa così l’occasione per spingere pubblico e artisti a interrogarsi su mancanze e obiettivi delle arti performative, e più in generale sul ruolo dell’arte e della cultura, oltre il periodo di crisi che stiamo vivendo, per immaginare un futuro possibile.

Da quanti anni va avanti il Festival Bolzano Danza?
Il Festival è stato fondato nel 1985: è piuttosto longevo e si avvia dunque alla sua trentasettesima edizione. Nel corso degli anni ha saputo adattarsi ai cambiamenti della società, e ha avuto cambi di direzione artistica. È nato a partire da alcuni workshop di danza, a cui si aggiungevano spettacoli come arricchimento della formazione degli allievi. Nel corso degli anni è diventato un festival con una programmazione ricca. Io ho iniziato a occuparmene dal 2011, affiancando l’allora direttore del festival: l’obiettivo era rendere il festival più inclusivo, in dialogo con la città di Bolzano.
Riguardo al rapporto tra teatro e contesto urbano: che cosa significano il teatro e il Festival per la città di Bolzano?
A Bolzano, nel periodo del dopoguerra, sono emerse due diverse comunità cittadine, quella di lingua tedesca e quella italiana; in quegli anni il teatro serviva a rafforzare e separare le singole identità linguistiche: i teatri di prosa portavano in città spettacoli in lingua tedesca e grandi attori del teatro italiano, per pubblici diversi. Solo successivamente il teatro, grazie a linguaggi come la musica e la danza, ha dato un contributo nel creare scambio e unione comunitaria. Anche per questo, a partire dagli anni Ottanta fino ad adesso, c’è sempre stato un grande amore e attaccamento della comunità nei confronti della danza come arte che, superando i confini linguistici, rompe le barriere culturali.
Quali sono state le difficoltà che avete affrontato nel dover cancellare il programma di Bolzano Danza 2020, ideato prima dell’emergenza sanitaria, e reinventarlo?
La difficoltà è stata abbandonare un grande progetto che coinvolgeva artisti provenienti anche da altri continenti. Cancellare sembrava l’unica strada per ripartire da capo, da un foglio bianco, cercando di trasformare la crisi in un nuovo scenario creativo possibile.
Com’è stato ripensato il Festival in seguito all’emergenza sanitaria?
L’idea prevalente nel settore dello spettacolo era quella di spostarsi all’aperto. Io invece, ho riflettuto sulla norma che prevedeva il divieto di fare spettacoli con la presenza di più persone. Con un approccio eversivo, cercando l’eccezione nella regola, ho pensato che fosse possibile costruire qualcosa di nuovo, partendo dall’idea che il teatro dovesse continuare a vivere nell’edificio teatrale, anche se alla presenza di un solo spettatore. È nato quindi il progetto che abbiamo realizzato: una successione di performance per un solo spettatore alla volta. Alla base c’era l’idea dell’incontro tra spettatore e interprete nella grande dimensione del teatro: il sipario rosso che si apriva su una sala completamente vuota. Partendo dall’esigenza di rispettare i limiti imposti dalle misure sanitarie, abbiamo ideato un modo per sperimentare l’essenza del teatro: la comunicazione tra palcoscenico e platea.

In che modo gli artisti coinvolti hanno accolto questa sfida?
La reazione è stata entusiasta: a partire dai coreografi Carolyn Carlson, Rachid Ouramdane e Michele Di Stefano, che hanno risposto al momento di crisi con una propria personale idea come chiave per interpretare il progetto, lavorando sulla coreografia nonostante la situazione. Anche gli interpreti, che sono stati attori, alla pari del pubblico, hanno fin da subito dimostrato entusiasmo per il progetto, rimanendone coinvolti, oltre che artisticamente, anche personalmente, instaurando un rapporto diretto con lo spettatore.
Com’è stata la partecipazione del pubblico? E com’è cambiato il rapporto tra spettatore e performer?
Anche il pubblico ha reagito con entusiasmo: ci sono state 450 repliche. È stato stupefacente rendersi conto che l’incontro tra pubblico e performer è stato a doppio senso di marcia: da una parte c’è stata l’emozione fortissima dello spettatore di tornare a teatro, e avere il contatto unico e diretto con l’artista; dall’altra lo stesso è stato valido per l’artista, a cui per mesi era stata negata la propria identità, non potendo andare in scena: ritrovarsi sul palcoscenico, davanti a uno spettatore, è stato straordinario. Spesso capitava che gli spettatori tornassero a teatro con un dono, dei fiori, delle lettere per il performer. Non avevamo immaginato come potesse essere il momento immediatamente successivo alla fine della performance: a volte scoppiava un applauso e lo spettatore ringraziava l’artista, altre volte rimaneva solo il silenzio. Per una coreografia in particolare era previsto che lo spettatore ricevesse una lettera del performer, anche personale, da leggere nello spazio del foyer, dove abbiamo creato un piccolo giardino con piante, divanetti e anche suoni della foresta: abbiamo pensato che, dopo una performance così particolare, lo spettatore avesse bisogno di uno spazio di riflessione prima di lasciare il teatro.
Perché avete pensato a EDEN come titolo?
Il titolo rimandava alla Genesi, al principio del teatro, e allo stupore del primo incontro tra esseri umani, che non vedevano differenze e si rispecchiavano nella figura fragile che si trovavano davanti. Emerge quindi l’idea di teatro come incontro: persone che si rispecchiano a vicenda le une nelle altre, facendo conoscenza dell’altro e allo stesso tempo di sé stesse.

Con l’esperienza di EDEN la dimensione collettiva di partecipazione allo spettacolo è stata sostituita da una individuale: pensa che il futuro della danza e del teatro possa essere questo?
Credo che questa possa essere un’esperienza legata all’urgenza del qui e ora di portare l’incontro tra persone nel luogo del teatro. A teatro ci sono due dimensioni che hanno entrambe valore: una che mette il singolo in rapporto unico e personale con il palcoscenico, ed è fondamentale poterne sperimentare l’essenza com’è stato con EDEN; poi c’è la dimensione collettiva nella quale il singolo condivide il momento dello spettacolo in relazione con gli altri spettatori. Queste due dimensioni ambivalenti sono fondamentali anche nella vita politica: l’essenza della democrazia sta nell’essere da soli nella cabina elettorale a esprimere il nostro credo più intimo e profondo, per ritrovarsi poi, insieme ad altre persone con cui condividiamo pensieri e ideali, a una manifestazione pubblica.
In un ambito come quello dello spettacolo dal vivo, che cosa ne pensa del rapporto tra eventi in presenza e digitale? Il digitale può essere una risorsa?
Il digitale non può essere una risorsa ma, dal punto di vista creativo, è un mezzo e deve rimanere un mezzo, non un contenuto. Si tratta di mettere un mezzo in mano agli autori (drammaturghi, coreografi, registi, compositori) e capire se corrisponde a una loro urgenza, e saranno poi loro a scegliere se utilizzarlo o meno. Porre, invece, il digitale come contenuto non può portare a risultati, perché non corrisponde a una vera urgenza da narrare.
Rivolgendo lo sguardo oltre la pandemia, ritiene che questa modalità, sperimentata da Bolzano Danza nel 2020, possa aprire nuove strade che il teatro può percorrere per ritrovare un rapporto nuovo e più partecipato con il pubblico?
Di questo periodo spero si possa mantenere la possibilità e la libertà di sperimentare artisticamente, in base a urgenze e contingenze anche meno drammatiche di quelle che stiamo vivendo con questa pandemia. Io spero che in futuro si possa ragionare meno sul risultato, sui numeri, sul dover raggiungere certi livelli di pubblico. Se non ci fosse stata la pandemia non avremmo mai potuto vivere ed esperire un progetto come quello di EDEN. Quindi spero che in futuro possa essere lasciata più libertà di ideazione e sperimentazione a chi fa cultura.
Ritiene che la danza, il teatro e più in generale il mondo dello spettacolo dal vivo, e della cultura, abbiano ancora una potenza insita che li renda necessari e capaci di avere impatto sulla vita delle persone, anche e soprattutto in questo momento di crisi?
La cultura sembra spesso messa ai margini, ma in realtà è più diffusa di quello che noi crediamo: le sue forme arrivano ovunque nel nostro quotidiano. La cultura, per essere capace di influire sulla società, deve poter essere davvero recepita da tutti. Possiamo portare a teatro spettacoli coraggiosi di denuncia, ma poi lo spettatore spesso coglie solo la superficie di quello che vede. La cultura per potere avere un impatto di cambiamento necessita, innanzitutto, della volontà di cambiare di chi viene raggiunto da essa.

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